The Walking Dead6×14 Twice As Far – 6×15 East

La sesta stagione di The Walking Dead sembra essersi persa in una spirale inconcludente, dopo alcuni episodi tra i più riusciti della serie. Con il finale di stagione alle porte, la trama non sembra proseguire in alcun modo e la struttura degli episodi, sempre più basata su cliffhanger ad effetto, trascura oltre ogni misura un'evoluzione coerente e interessante della storia.

0.0

Ormai in The Walking Dead è una costante: dopo una serie di episodi più o meno riusciti (il precedente The Same Boat, ad esempio, è stato uno dei migliori in assoluto per tensione e coinvolgimento emotivo), ci si ritrova a pochi passi dalle battute finali della stagione con la classica sensazione di stanchezza, dovuta ad una trama che – dopo aver proceduto a passo spedito negli episodi successivi alla winter premiere – sembra trascinarsi senza una direzione ben precisa verso il finale della settimana prossima.

Twice As Far

Il modus operandi degli autori, che mai come in questa stagione hanno alternato capitoli davvero degni di nota ad altri palesemente evitabili, è sempre il medesimo e porta inevitabilmente allo stesso risultato: si cerca di plasmare, per qualche episodio, un abbozzo di background caratteriale a qualche personaggio secondario, nella speranza di un’impennata di empatia nel momento in cui il suddetto personaggio verrà fatto fuori in modo più o meno random. Viceversa, proprio alla luce di episodi come questo permangono dei dubbi sulla virtuale immortalità di altri personaggi (Glenn who?) che sembrano riuscire a cavarsela anche nelle situazioni più disperate, non senza una notevole dose di sospensione dell’incredulità richiesta allo spettatore.
C’è da dire che le premesse della puntata – pur nel consueto appiattimento nei dialoghi che ciclicamente torna a pesare nell’economia della serie – erano decisamente buone. L’emancipazione degli outsider e il loro desiderio di rivalsa costituiscono i temi cardine della prima parte dell’episodio, quella più corposa: le figure preponderanti, in tal senso, non potevano che essere Denise e Eugene, relegati finora al ruolo di comic relief o – specie nel caso di Eugene – bersagli di insulti o scherno più o meno velati.

Proprio in questo episodio, entrambi riescono ad avere la loro rivincita (seppur effimera e costellata di effetti collaterali) sul resto del gruppo, che non sembrava aver mai compreso appieno il loro modo di essere e le loro esigenze; la stessa struttura dell’episodio si divide, in parti più o meno uguali, tra la spedizione di DeniseDaryl Rosita in cerca di medicinali e quella di Eugene e Abraham in cerca di materiali per la fabbricazione di proiettili, nella loro strada verso il cambiamento interiore e l’uniformazione al resto dei loro compagni. Emerge infatti con forza, da parte di entrambi, un comprensibile timore verso situazioni che i due non hanno mai affrontato, e sarà proprio questo timore iniziale a costituire la leva di tale crescita.

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Se Eugene non riesce a liberarsi completamente della sua maschera di uomo un po’ goffo, ridicolo e anacronistico, in Denise il cambiamento è decisamente più radicale, e permette di dare sfogo alla rabbia e alla frustrazione che evidentemente albergavano in lei da ormai troppo tempo. Per una donna abituata ad aiutare la comunità in tutt’altro modo (improvvisandosi medico con inaspettato successo), affrontare uno zombie da sola, senza una reale utilità pratica, sembrerebbe avere la parvenza di un capriccio o di un tentativo di dimostrare agli altri la propria capacità di imporsi e di contare qualcosa; tuttavia, appare evidente dai successivi dialoghi con Daryl e Rosita come la molla di tutto il processo sia in realtà la ricerca di una rivincita nei confronti del proprio passato, costellato di oggettive difficoltà e pesantemente condizionato dalla perdita del fratello.

La sua morte, ampiamente preannunciata proprio a causa di questo gusto perverso degli autori nel rivelarci il background dei personaggi proprio nel momento in cui decidono di farli fuori, riesce comunque a giungere improvvisa e ad effetto, con il ritorno di Dwight e dei suoi scagnozzi lasciati in vita da Daryl, dando il via agli eventi che ci porteranno verso l’episodio successivo e che permetteranno a Eugene di dare finalmente un contributo determinante nelle dinamiche del gruppo.
La sua rivincita personale non può essere nei confronti del suo passato (che non ci è dato conoscere, probabilmente perché la sua morte non è ancora in programma) ma è, ovviamente, nei confronti di Abraham. Il pestaggio di Eugene da parte sua, dopo la rivelazione dell’enorme rete di bugie tessuta con costanza da quest’ultimo con il solo fine di cercare protezione dal gruppo, sembra ormai lontana anni luce e Abraham riesce finalmente a fare il primo passo, seppellendo l’ascia di guerra che era ormai sguainata da davvero troppo tempo.

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La reale nota dolente dell’episodio va, spiace dirlo, ricercata nel cambiamento troppo radicale di Carol, alla luce del trauma subito nel precedente episodio e dei – pur intensi – ripetuti scambi con Morgan sulla necessità di uccidere per autodifesa. È innegabile che il personaggio di Carol rappresenti quanto di meglio la serie abbia proposto finora, ma proprio per tale motivo la decisione repentina di separarsi dal gruppo appare forzata e poco in character. Nemmeno la morte di uno dei personaggi del gruppo e la classica ricerca spasmodica del cliffhanger riescono, quindi, a risollevare del tutto le sorti di questo episodio di passaggio che avrebbe potuto dare decisamente di più nella scrittura dei dialoghi e nello sviluppo dei personaggi, viste le eccellenti premesse.

2.5

East

La fuga di Carol e la morte di Denise hanno dato il via, forse in modo ancora più evidente rispetto all’assalto da parte dei Saviors, una sorta di “moto di coscienza” collettivo che ha impattato, in un modo o nell’altro, su tutti i personaggi principali.

Il senso di colpa di Daryl – dovuto sia al fatto di essere il bersaglio originario della freccia che ha poi fatalmente colpito Denise, sia al pentimento nell’aver a suo tempo lasciato in vita Dwight e i suoi scagnozzi – lo porta ad avviarsi in solitaria alla ricerca dei suoi avversari “personali”; se tale ricerca è comprensibile e animata da un sincero sentimento di amarezza che, sopito da tempo, si sta manifestando improvvisamente e con tutta la violenza del caso, indubbiamente meno giustificabile e quasi sfruttato come riempitivo è l’inseguimento (rivelatosi poi assolutamente inutile) da parte di Rosita e Glenn.

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La natura di lupo solitario di Daryl (personaggio ormai completamente abbandonato a se stesso e utilizzato praticamente come tappabuchi nei frammenti di stagione meno interessanti) emerge in tutta la sua prepotenza, portando ad un epilogo quanto mai scontato e inconcludente.
Mai sottovalutare l’avversario, soprattutto se umano, è la prima regola che i sopravvissuti del mondo di The Walking Dead hanno dovuto imparare: la legge del più forte (o del più furbo) è l’unica a contare realmente, e Daryl ha dimostrato per l’ennesima volta – altro aspetto fortemente out of character ma in qualche modo riproposto ciclicamente in questa sesta stagione – di non saper far fronte nel migliore dei modi alle situazioni che gli si parano davanti.
L’imbarazzante epilogo dell’episodio, con tanto di sangue sulla telecamera quasi a voler (senza risultato) fugare possibili dubbi in merito alla morte di Daryl – che, diciamolo, ad eccezione del carisma dovuto soprattutto al personaggio cucito perfettamente addosso a Norman Reedus non ha più niente da dire da ormai un paio di stagioni – è solo una goccia in un oceano di cose che non vanno nell’episodio.

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La stessa fuga di Carol da Alexandria, epilogo prevedibile di un’evoluzione repentina maturata nel giro di una manciata di episodi, viene motivata anch’essa da un improvviso moto di coscienza della donna, ormai stufa di dover difendere una roccaforte a suon di uccisioni da parte di invasori continui; il controsenso insito nella sequenza in cui cinque minuti dopo uccide a sangue freddo quattro persone, pur minacciose e a seguito di numerosi avvertimenti, è palese e rovina completamente questa prima parte dell’episodio, che gestita diversamente avrebbe potuto essere estremamente d’impatto (del resto, Carol ci ha abituati al suo ruolo di protagonista assoluta delle parti più riuscite dell’intera serie). Non si riesce a comprendere, infatti, per quale motivo Carol dovrebbe uccidere delle persone subito dopo averle avvertite di non avvicinarsi ad Alexandria, in un evidente tentativo di risparmiare loro la vita.

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D’altro canto, abbiamo Rick e Morgan che – per motivazioni diverse – decidono di partire all’inseguimento di Carol, ormai personificazione della fragilità psicologica; se Rick ritiene Carol, giustamente, parte della propria famiglia, le motivazioni di Morgan sono meno chiare ma potrebbero avere a che fare con il senso di colpa derivante dal ruolo determinante ricoperto nel cambiamento di coscienza della donna. Anche qui, però, la piattezza generale dei dialoghi ritorna a pesare sull’episodio.
Morgan diventa sempre più macchiettistico e banale nel suo percorso fatto di non violenza a tutti i costi, e come abbiamo avuto modo di vedere il rischio di contagio (partito proprio con Carol) è più che mai presente.

Ci ritroviamo così, ad un passo dall’episodio finale, senza eventi degni di nota che determinino un’evoluzione della trama. Il finale di stagione sarà un episodio doppio, e tale scelta di minutaggio è indicativa non del fatto che ci siano molte storyline da concludere, ma della dubbia utilità degli ultimi due episodi, che non hanno contribuito in alcun modo a creare il climax adeguato per un ultimo appuntamento col botto. Nemmeno la minaccia derivante dall’introduzione di Negan (già ampiamente preannunciata da ormai qualche tempo) rappresenta il baluardo di speranza di questa stagione, e suona più che mai come un tentativo di porre rimedio a questi due episodi decisamente sottotono.
Vale, in questo caso, la stessa considerazione già formulata per l’episodio precedente: la serie sta andando avanti – perlomeno ultimamente – a colpi di cliffhanger, peraltro assolutamente telefonati e prevedibili, e alla sesta stagione, con dei personaggi così ben delineati sotto tutti i punti di vista, una scrittura di questo tipo non è perdonabile.
Basterebbe qualche accortezza in più, e qualche episodio in meno, per puntare all’eccellenza, ma il livello complessivo di The Walking Dead si è ormai assestato nella più banale mediocrità.

2

 

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