Prison Break5×02 Kaniel Outis – 5×03 The Liar

Rifacendosi al proprio passato, Prison Break punta ad accelerare il ritmo della narrazione ricorrendo al tipico espediente dell'evasione. Un revival quasi del tutto riuscito ma che suscita qualche perplessità riguardo al futuro e alla psicologia dei personaggi.

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Dopo il tiepido ritorno con la première di due settimane fa, Prison Break cerca di alzare il tiro ricorrendo alle dinamiche che più hanno inciso sul suo successo: la fredda razionalità di Michael, il ritmo incalzante dell’azione e l’atmosfera colma di intrighi e complotti che le scie chimiche al confronto sono fumi del barbecue di Pasquetta.

Kaniel Outis

La nuova identità assunta da Michael, che dà il titolo al secondo episodio, crea non pochi problemi al resto del gruppo; se da un lato infatti Lincoln C-Note fanno fatica a convincere Sheba che il prigioniero tatuato non è un terrorista, dall’altro Sara comincia a nutrire dubbi sul suo ex dopo che un ritrovato Paul Kellerman le mostra un video in cui Michael sembra macchiarsi dell’omicidio di un membro della CIA. Può il vecchio Scofield essere cambiato così tanto durante questi anni lontano dai suoi cari? Tutti gli indizi portano a sospettare che dietro la messinscena della morte e la successiva resurrezione con nuova identità sia opera dello stesso Michael, ma la ragione è ancora ignota. In un’atmosfera che riprende i toni del primo Homeland, questo e il successivo episodio di Prison Break cercano di minare l’immagine del Michael irreprensibile e moralmente integerrimo che le precedenti quattro stagioni avevano costruito, insinuando il dubbio sulla sua nuova vita, in cui con nonchalance sembra intrattenersi con il fondamentalista Abu Ramal, leader dell’ISIL, gruppo terroristico che sta prendendo piede in Yemen.

Chiaramente il rapporto tra i due verrà chiarito nella puntata seguente, e non sussistono reali insicurezze sulla bontà di Michael, il quale comunque appare effettivamente cambiato, più sfumato rispetto al manicheo protagonista delle stagioni precedenti, pur conservando la sua indole da MacGyver wannabe che, a tratti, risulta esasperata. Molti, forse troppi, i topoi del genere thriller che vengono utilizzati, non ultimo quel “a storm is coming” che a brevettarlo avrebbe reso una fortuna, e che appesantiscono una puntata altrimenti scorrevole, con qualche criticità tipica del vecchio Prison Break le lungaggini dialogiche da psicologia salottiera non riescono proprio a scrollarsele – ma senza particolari drammi.

Colpisce in positivo il tentativo di agganciare all’attualità la trama orizzontale, forse in maniera superficiale ma comunque efficace; in particolare, al di là della pur rilevante considerazione sul ruolo della donna, risalta l’omofobia dei fondamentalisti, a maggior ragione se abbinata alle forti prese di posizione che il protagonista Wentworth Miller, gay dichiarato, ha più volte espresso nei confronti di atteggiamenti omofobi. Tenuto conto del ritmo alle volte blando della narrazione, la puntata riesce comunque a distaccarsi dall’episodio precedente, assestandosi su tre porcamiseria.

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The Liar

Bisogna arrivare al terzo capitolo per ritrovare completamente Prison Break, che tiene fede al proprio nome proponendoci l’ennesima variazione (neanche tanto) sul tema dell’evasione. Scopriamo infatti che per qualche motivo Michael e Whip, suo compagno di cella negli ultimi anni, avrebbero dovuto organizzare la fuga di Ramal dalla prigione per conto del misterioso Poseidon e della CIA. Il tentativo di scappare dalla galera, favorito dall’esterno grazie a Licoln, Sheba e C-Note, non va però in porto e il piano di Michael di abbandonare Ramal durante la fuga viene allo scoperto, facendolo diventare il prossimo obiettivo del leader terrorista. Senza più armi da giocare, Scofield sembra abbandonare la sua imperturbabile freddezza e registra in lacrime un video per Sara, ancora dubbiosa sui comportamenti del suo ex, ma convinta ad andare a fondo dopo essere stata pedinata da due agenti di Kellerman. Nel fare ciò, pur restia, si accorda con T-Bag, alla ricerca del motivo che ha spinto Outis/Michael a pagargli la nuova protesi alla mano.

Ancora una volta la serie gioca con i suoi elementi classici: la fiducia tradita, i sospetti e il doppio gioco, la capacità quasi sovraumana di Michael nel progettare i suoi piani. Sì, perché ad inizio episodio la voglia di urlare all’esagerazione è forte in presenza dell’eccessiva sicumera con cui Scofield, al pari di Nostradamus, prevede tutti i dettagli del caso. Tale sovrastima viene solo parzialmente confinata nel finale, quando l’imprevisto irrompe in quello che sembrava l’ennesimo piano di fuga con alternative e soluzioni infinite. Le capacità di Michael, più di una volta evidenziate durante cinque stagioni, non hanno bisogno di essere esasperate né portate all’eccesso, quanto piuttosto di essere ridimensionate, come in parte avviene nel disperato pianto finale.

Sara riesce a smarcarsi dall’alone antipatia che la caratterizza, ma i contorni del suo ruolo e di quello di T-Bag nel contesto generale risultano ancora troppo vaghi per destare un interesse che giustifichi il minutaggio assegnatogli. Prison Break conferma dalla sua la qualità nel trattare il ritmo serrato e la crescente tensione di situazioni claustrofobiche, ma non può certo fossilizzarsi su questi espedienti, che richiamano ben più di un episodio delle passate stagioni, e non possono essere ipotizzati in futuro senza il rischio di apparire o ripetitivi o inadeguati. Il climax e i temi, oltre che al già citato Homeland, rimandano alla seconda stagione di 24, che proprio sul ritmo e il cliffhanger forzato aveva impostato la sua mitologia.

L’episodio riesce comunque, al netto dei difetti, a divertire e a tenere sulla sedia, come non accadeva da tempo, per questo motivo gli si perdonano alcuni nei logici non proprio marginali, spostando il voto di un mezzo porcamiseria rispetto al precedente.

3.5

 

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