SpecialiIl fascino discreto della distopia

A un intrattenimento sempre più piacevolmente distopico corrisponde un contrappeso di paure contemporanee che la TV cerca di esorcizzare facendo risuonare qualche campanello d'allarme. Perché può sempre andare peggio e piovere.

Cosa potrebbe mai andare storto? C’è un genere letterario che ha provato a dare “tutto” come risposta a questa domanda ed è la distopia. Al contrario dell’utopia, che descrive un orizzonte di eventi e un mondo auspicabile, la distopia fa tutto l’opposto, narrando universi in cui perdere l’autobus è la cosa migliore che possa succedervi durante la giornata.

Il filone distopico non l’ha inventato ovviamente la TV (basta quel 1984 a capeggiare come capolavoro indiscusso del genere per darne conferma), ma negli ultimi anni il piccolo schermo si è adattato al sempre maggiore successo di storie di questo tipo, testimoniato anche dagli incassi poderosi di saghe distopiche come Hunger Games, Maze Runner Divergent, confezionando sempre più show su realtà poco raccomandabili. Al tramonto dell’era fantasy, insomma, corrisponde l’alba della distopia, e questo la dice molto lunga sulla nostra percezione del presente.

La tecnologia in particolare, con quell’aura di mistero riguardo alle sue potenzialità e ai suoi meccanismi, continua a rappresentare il punto di partenza per ogni distopia che si rispetti. L’abuso di strumenti tecnologici è il fulcro dell’acclamata Black Mirrorche nel suo futuro imminente propone un allarmismo non urlato ma inquietantemente bisbigliato in un orecchio da una voce robotica. A differenza delle altre opere seriali distopiche che vedremo tra poco, lo show di Charlie Brooker è più flessibile e meno rigoroso muovendosi al limite delle regole del genere, senza aderirvi mai completamente nella sua forma canonica, ma nonostante questo distinguendosi come uno degli esempi più azzeccati di realtà cacotopiche. La giustizia di White Bear Black Museumil controllo paranoico di Arkangel Fifteen Million Merits, la rigida stratificazione sociale di Nosedive sono solo alcuni dei terribili aspetti narrati singolarmente che insieme danno l’inquietante armonia di un campanello d’allarme.

Non è infatti un caso che tale genere occupi sempre più spazio nelle rappresentazioni odierne: The Handmaid’s Tale è un altro gustoso prodotto distopico che ha eccelso nella scorsa stagione televisiva per la qualità della sua narrazione. Anche in questo caso il terribile scenario della storia non appare così lontano nel tempo, in una realtà che potrebbe benissimo essere la nostra prima di collassare. Nettamente più intrisa di topoi del genere cacotopico, la serie deve il suo successo anche alla perfetta resa dell’atmosfera claustrofobica e alla realistica (e, per forza di cose, lenta) presa di coscienza dei germogli della rivolta, affidata sempre ad un gruppo in cui le individualità sono sempre ben rilevabili, in netto contrasto all’omologazione livellante dei regimi in carica.

Anche in questo caso la serie si fa latrice di istanze molto più profonde, avvertendo sui pericoli di una spersonificazione portata avanti in nome di valori opprimenti. Non è (solo) la storia di un regime autoritario ispirato ai dettami di una religione corrotta, ma anche – e soprattutto – l’invito a non cedere alle sirene di una globalizzazione che, se male interpretata e gestita (al pari degli strumenti tecnologici di Black Mirror), non può che portare alla perdita del sé e alla parificazione senza equità.

Ancora, sul sé e sulla sua importanza spinge il più recente degli esempi distopici, Altered Carbon, in cui il corpo arriva ad assumere una funzione strumentale perdendo completamente il rapporto con la parte spirituale. È un altro dei punti su cui la distopia spesso insiste, quello del progressivo allontanamento dalla dimensione naturale del mondo. Una distanza ben configurata da opere in cui la corporeità assume una rilevanza fondamentale, come il suddetto Altered Carbon, USS Calister (per tornare a Black Mirror), Twice Upon a Time in casa Doctor Who, la già citata The Handmaid’s Tale e, sicuramente non ultimo, Westworld, un altro dei casi che giocano coi confini di genere per snocciolare un’analisi delle coscienza umana e del suo rapporto con la natura e la tecnologia, i due estremi che delimitano l’universo distopico.

La serie con Anthony Hopkins si diverte a creare all’interno di una cornice un’altra realtà cacotopica, moltiplicando lo straniamento dello spettatore. Un effetto che infatti rende interessante questo genere è la commistione e il perfetto equilibrio tra vicinanza e lontananza delle situazioni proposte, per cui l’avvertimento per un pericolo presente viene portato all’esasperazione in una situazione futura, sì da fungere da fantasma del Natale futuro e permettere l’eventuale correzione di determinati atteggiamenti. Sono le nostre paure contemporanee ad alimentare il riflesso distopico, rivelando un presente fatto di molte più ansie rispetto al passato, in cui questi terrori erano di natura diversa e molto più contenuti. Più andiamo indietro e meno cacotopie troveremo nella memoria televisiva, qualche episodio sparso in Doctor Who Star Trek, ma poco di realmente strutturato per sopravvivere all’autoconclusività di una puntata. Fa eccezione Il prigionierosci-fi classico che ha circoscritto ad un’isola l’orizzonte distopico, anticipando in questo Lost (già debitore al romanzo capolavoro del genere Il Signore delle Mosche), almeno per ciò che concerne l’organizzazione di Ben e gli altri.

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E, a proposito di Michael Emerson, non si può non citare il sottovalutatissimo Person of Interestdi cui è stato protagonista: un procedurale che muta profondamente nell’arco delle prime stagioni per trasformarsi in un’analisi spietata e acuta del tema della privacy e della sicurezza in un mondo sempre più digitalizzato. Sarebbe un torto enorme non rendere poi merito anche ad altre belle opere distopiche come The Man in the High Castle, che preme di più sulla fantastoria, calcando troppo sulla distanza dall’attuale presente, o Philip K. Dick’s Electric Dreams, recente tentativo di tradurre sullo schermo l’opera di un genio distopico inarrivabile. Come non citare, infine, The 1003% che hanno saputo approfittare del successo del sottogenere post-apocalittico per imbastire una piacevole esperienza di intrattenimento in una realtà spiacevole. Se ve la sentite di dibattere con Leibniz e contestare la sua opinione sul nostro come il migliore dei mondi possibili, tenete conto che poteva andarci molto peggio!