Black Mirror3×06 Hated in the Nation

Mamma, mi ha ucciso un hashtag! Black Mirror affronta gli specialisti dell'odio online con il consueto attacco all'ipocrisia di quanti ancora credono che ne uccida più la spada... Una lucida analisi su giustizia, responsabilità e conseguenze ai tempi di Twitter.

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Quanto distano il reale e il virtuale? Ad oggi non molto, e a lungo andare questa vicinanza assumerà sempre più i connotati di una coincidenza. Dai visori VR ormai all’ordine del giorno alla realtà aumentata degli smartphone e dei compianti smartglasses, il mondo digitale continua a prendere terreno su quello reale, un’opportunità (o una minaccia) che i sadici autori di Black Mirror non potevano lasciarsi scappare. In questo caso, anziché nella forma più ludica del tema, espressa nel secondo episodio della stagione Playtest, la serie si concentra anzitutto sulle conseguenze e le responsabilità dello shaming e dell’odio virtuale declinandole secondo un’inusuale ma ferrea struttura da thriller, agghindata apparentemente secondo un dualismo manicheo ma che lentamente conduce alla sovrapposizione degli opposti.

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#DeathTo SerialFreaks

Due detective – l’esperiente e la novizia, il nuovo che avanza e il vecchio che insegna, la formata sul campo e l’apprendista abituata alla tastiera, ancora il reale e il virtuale – sono alle prese con una serie di omicidi commessi da insetti droni indirizzati verso il personaggio più odiato del giorno; a scegliere il malcapitato sono gli utenti web di tutto il mondo, grazie a un sadico gioco in cui l’hashtag #DeathTo viene associato alla vittima prescelta, colpevole, nel mondo reale, di essere simpatica quanto la scabbia. La ricerca della fonte dell’hashtag condurrà le due poliziotte a condannare a morte i 387.000 fruitori del letale codice, che da carnefici virtuali diverranno vittime reali. “Non è odio vero” afferma a inizio puntata la detective Parke riferendosi al fiume di minacce indirizzato alla prima vittima, mostrando di essere ben lontana dall’intuire la verità dietro il monitor. Conseguenze e responsabilità, un altro dualismo dell’episodio, sono due degli elementi principali su cui Hated in the Nation punta: di chi è la responsabilità degli omicidi? Degli hater o di Garret Scholes? La morte dei sobillatori virtuali non è una conseguenza delle indagini delle detective? A chi dunque la colpa? Non è un caso che la cornice della puntata sia rappresentata da una commissione giudicatrice che per tutto l’episodio ascolta e poi libera all’odio (reale) della folla Karin Parke.

Può una minaccia risultare meno vera perché digitata da una tastiera?

L’intero episodio è una cruda disamina degli specialisti dell’odio di entrambi i mondi: quelli che nella realtà si assumono la responsabilità di ciò che dicono e vanno incontro alle conseguenze, ma non per questo sono meno “colpevoli” (Jo PowersTuskClara Meades), e quelli sul web per cui un “arresta sistema” ha la funzione di assolvere come un tempo l’avevano un Ave Maria e un Padre Nostro, ma che stavolta non la faranno franca, ingurgitati dal proprio non-reale odio divulgato con un solo click. Ancora una volta Black Mirror fa fede al proprio nome e ci mette davanti lo specchio deformante dei nostri schermi attraverso cui assumiamo le sembianze di inconsapevoli mostri, da una parte o dall’altra senza possibilità di assoluzione: il gioco delle conseguenze non fa sconti. Un tema quanto mai attuale, quello dello shaming, che proprio in Italia ha avuto l’attenzione dei giornali per un recente caso di cronaca.

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Trovano spazio, tra le tematiche generali, anche una non troppo velata critica al complottismo (che qui viene rappresentato secondo i tradizionali cliché), e che non è casualmente associato allo sviluppo di questo odio virtuale; e forte, pur senza invadenza, risalta la necessità di una riconsiderazione ecologica, giacché, alla fine della fiera, un piano di tale portata è stato possibile solo come conseguenza dell’estinzione delle api. Non giova molto all’episodio l’impostazione troppo canonica del thriller, che avrebbe avuto sicuramente un altro effetto su un minutaggio inferiore; la puntata è difatti la più lunga tra tutte quelle di Black Mirror, e gli 89 minuti non mantengono un ritmo costante, presentando alcuni momenti poco dinamici e dalla dubbia credibilità. Ciononostante, il livello è nettamente alto, con letture metatestuali e simboliche accuratamente dispensate, e con la consueta ottima fattura tecnica che contraddistingue lo show. Il finale aperto dell’episodio lascia spazio a libere interpretazioni, e Charlie Brooker, uno dei creatori dello show, ha dichiarato che qualche personaggio probabilmente tornerà in futuro nella serie.

Quanto dista il reale dal virtuale ci domandavamo all’inizio di questa recensione, e laddove il virtuale è anche (e soprattutto) una serie tv come Black Mirror, capace in alcuni dei suoi episodi di anticipare gli eventi, per quanto ancora potremo distinguere i due piani se i droni insetto sono già qui e l’odio del web continua a condannare nuove vittime?

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Note

  • Dagli indizi sparsi qua e là questo episodio sembra ambientato nel medesimo universo narrativo di White Bear (la seconda puntata della seconda stagione) e Playtest: quando Garret, ormai fuggitivo, sta guardando il tg al bar, tra le notizie si può leggere che Shou Saito ha annunciato un nuovo sistema immersivo di gioco; Blue invece ammette di aver abbandonato la sua carriera di poliziotta informatica a seguito del caso di Iain Rannoch, che in White Bear è il fidanzato della criminale condannata. Il riferimento a questi episodi non sembra essere casuale, giacché affrontano uno il tema della virtualità e l’altro quello della giustizia, nuclei tematici che ritroviamo, convergenti, in questa puntata.
  • A ispirare gran parte dell’episodio è stato il libro So You’ve Been Publicly Shamed, un saggio sociologico sulle origini e il ritorno in auge dello shaming.

Effetti collaterali:

Una stagione così il cuore non la regge

#DeathToHashtag

 

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