American Horror Story7×08 Winter of Our Discontent – 7×09 Drink the Kool-Aid

La setta di Kai si arricchisce di nuovi adepti e Winter tenta invano di far ragionare il fratello e limitarne la follia. Mentre l'uomo si lascia sempre più sedurre dal potere e dalle ambizioni alla grandezza, qualcuno sembra voler approfittare dell'occasione per cambiare radicalmente le carte in tavola e ottenere la propria rivincita.

4.3

Sempre più vicini al finale di stagione, il tasso di massacri per episodio finora presente in American Horror Story: Cult aumenta considerevolmente e se da un lato qualcosa di grosso sembra smuoversi, dall’altro si tratta di escamotage usati fino alla nausea nel corso di questi anni, motivo per cui i colpi di scena non riescono a suscitare neanche il più minimo cenno di sorpresa nello spettatore.

Winter of Our Discontent

La divisione tra i sessi all’interno del culto continua a farsi sempre più netta e le donne, inizialmente vera e propria forza motrice della setta, si ritrovano a tutti gli effetti relegate al ruolo di sguattere, mentre il loro capo si circonda di nuovi adepti talmente improvvisati e piatti che sembrano usciti da uno stock ordinato su Internet. Mentre Ivy e Beverly, deluse dalla deriva che sta prendendo il movimento e memori dell’infusione di misandria dello scorso episodio, vorrebbero ribellarsi in maniera radicale, il focus dell’episodio si sposta su Winter e i suoi tentativi di arginare la follia del fratello e riportarlo su posizioni più moderate, come quelle su cui si trovavano d’accordo prima che l’incontro con il torturatore visto nei flashback lo portasse a inseguire l’idea di distruggere il mondo.

Ovviamente, il piano della ragazza è destinato a fallire già in partenza, tanto che la prima reazione del fratello alle sue parole è la proposta di concepire un fantomatico messia, simbolo della rivoluzione in atto. L’ennesima prova dei disturbi e delle manie di onnipotenza che turbano la sadica personalità di Kai, tuttavia, si mostra più imbarazzante del previsto: come se l’idea non fosse già abbastanza banale da gettare fango sull’episodio, le disturbanti modalità scelte dal ragazzo per portare a termine il rituale si rivelano un debole tentativo da parte di Ryan Murphy di sconvolgere lo spettatore, quando in realtà a suscitare le reazioni più indignate sono le coltellate che la scrittura riserva al carattere dei personaggi in questione.

Se soprassediamo al detective Samuels, utilizzato con fini meramente strategici nell’episodio, l’idea che Winter possa lasciarsi ingravidare da un uomo qualunque in una situazione del genere è paradossale e out of character tanto quanto l’accettazione del fallimento del rituale da parte di Kai: da un uomo che finora è riuscito ad avere tutti alla sua mercé senza farsi troppi scrupoli, come minimo ci aspetteremmo qualche asso nella manica più o meno violento per permettere l’unione tra la sorella e il detective e portare a termine il piano.

In particolare, la caratterizzazione del personaggio interpretato da Billie Lourd procede all’insegna dell’incoerenza per tutta la durata di questo episodio e anche del successivo, alternando momenti di inaspettata presa di posizione nei confronti del fratello a più frequenti atti di ubbidienza e sottomissione, che si concretizzano in un susseguirsi di scene sempre in contraddizione tra loro. A dimostrare ulteriormente l’incapacità di Winter of Our Discontent nell’approfondire correttamente i personaggi è il trattamento riservato a Vincent Anderson, la cui storyline viene interrotta senza essere stata nemmeno toccata.

Dopo un’abbondante presenza come psicologo nelle prime puntate, la rivelazione circa la sua parentela con Kai e Winter ha fatto pensare ad un’importanza maggiore del personaggio, magari come alleato del fratello: quello che scopriamo con delusione, invece, è che Vincent era del tutto ignaro del piano di Kai e che quindi non ha avuto alcun ruolo attivo in quanto è accaduto ad Ally. Come se non bastasse, il personaggio di Cheyenne Jackson risulta ancor più bidimensionale quando manifesta di voler denunciare le azioni criminose del fratello, portando a chiederci che senso abbia avuto mostrarci il loro legame e l’ambiguità di Vincent – che ricordiamo aver mummificato i corpi dei genitori in una stanza chiusa per salvare la propria carriera – per poi non esplorare il suo personaggio.

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Drink the Kool-Aid

Se già l’ottavo episodio è stato penalizzato da diverse lacune e leggerezze poco perdonabili, in Drink the Kool-Aid questi difetti trovano la propria amplificazione, dando vita a soluzioni narrative che, in più di un’occasione, rasentano il ridicolo. La parte più esemplificativa in questo senso è la prima metà dell’episodio, una vera e propria sequenza di nonsense che, sebbene non sia nuova in American Horror Story, non ci saremmo aspettati nemmeno nelle nostre ipotesi più pessimiste. Per quanto riguarda l’illogicità, l’organizzazione del piano di fuga da parte di Ally, Ivy e Winter sulla base dei consigli di WikiHow – sì, anche noi all’inizio pensavamo di aver sentito male – parla da sé: tralasciando l’impossibilità che un piano del genere possa riuscire a battere l’intelligenza e i mezzi di controllo di Kai, quanto poco senso può avere cercare su Internet “come fuggire da un culto?” se poi il consiglio di cui ci si accontenta è “molla tutto e scappa“?

La faccenda si fa ancora più assurda se ci si concentra sull’incoerenza che sta alla base di molte azioni e reazioni dei personaggi, un indegno proseguimento di quei comportamenti out of character riscontrati in Winter of Our Discontent. Mentre la babysitter continua a cambiare idea sulla propria lealtà al fratello a ore alterne, Ivy, oltre a mettere in pericolo la vita del figlio con quella stessa incomprensibile ingenuità che la porterà alla morte, si lascia andare ad un imbarazzante ritorno con la coda tra le gambe dalla moglie, quando è stato proprio l’odio nei suoi confronti a portarla ad abbracciare il culto di Kai.

Leggermente migliore, bisogna dirlo, è l’approfondimento di Ally: la donna si è infatti liberata delle proprie fobie – cosa che purtroppo noi non riusciamo a fare con le urla della Paulson – ed è pronta a tirar fuori gli artigli per vendicarsi e riavere indietro suo figlio. A non convincere è la quasi totale assenza di contestualizzazione di questo radicale cambiamento, limitata a un paio di frasi che spiegano l’esperienza di Ally durante la riabilitazione psichiatrica: piuttosto che dilungarsi in efferate spiegazioni, American Horror Story preferisce passare direttamente ai fatti, mostrandoci il telefonatissimo e per nulla sconvolgente avvelenamento di Ivy.

Tuttavia, il nuovo ruolo di Ally funziona molto meglio se analizzato in relazione alla trama di quest’ultima parte di American Horror Story: Cult; il colpo di scena dello scorso episodio, infatti, è riuscito, nonostante fosse anch’esso abbastanza prevedibile, a mettere in crisi i già precari equilibri della setta e smuovere finalmente la situazione. Identificandosi non solo nei leader dei culti del passato, ma anche nello stesso Cristo, Kai ci mostra quanto la maniacale dedizione alla causa e la percezione deviata che ha di sé siano le sue debolezze maggiori, al punto da portare alla sua prima sconfitta per mano di Ally, che utilizza sapientemente le sue stesse menzogne e il suo ego spropositato contro di lui, per riavvicinarsi al figlio e contemporaneamente garantirne la salvezza. Il rapporto tra i due protagonisti, grazie al nuovo ruolo di Messia assunto da Oz agli occhi di Kai, prende così una via inaspettata ed imprevedibile che, al netto di una scrittura non particolarmente chiara riguardo l’interesse dell’uomo per il bambino, sancisce l’unica vittoria di questi episodi, senza comunque essere sufficiente per riscattarli.

Porcamiseria
  • 4/10
    Storia - 4/10
  • 6/10
    Tecnica - 6/10
  • 3/10
    Emozione - 3/10
4.3/10

In breve

American Horror Story: Cult prosegue in caduta libera con due episodi che, seppur con entità leggermente diverse, soffrono dei medesimi difetti strutturali: l’incoerenza dei personaggi, le illogicità sparse e una scrittura troppo superficiale si vanno ad affiancare a colpi di scena deboli e già visti.

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4 (2 votes)

Come se Ozymandias non fosse già un trauma sufficiente

Ryan Murphy, se ci sei batti un colpo

E se serve qualche comparsa chiama la Paulson, non fa una piega

https://twitter.com/sheneedslondon/status/925820249882193921

Porcamiseria

4.3

American Horror Story: Cult prosegue in caduta libera con due episodi che, seppur con entità leggermente diverse, soffrono dei medesimi difetti strutturali: l'incoerenza dei personaggi, le illogicità sparse e una scrittura troppo superficiale si vanno ad affiancare a colpi di scena deboli e già visti.

Storia 4 Tecnica 6 Emozione 3
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