FEUDSeason 1 Recap: Il prezzo della fama

Le vite di Joan Crawford e Bette Davis, due mostri sacri dell'industria cinematografica. La solitudine di entrambe si tramuta presto in sofferenza, spingendo le attrici a rendersi prigioniere di un sistema sessista e ageista che le pone l'una contro l'altra.

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Come già abbondantemente anticipato nella recensione dell’episodio pilota, Feud è l’ultima grande fatica del poliedrico showrunner Ryan Murphy. La prima stagione della serie si incentra sulla faida venutasi a creare fra due colonne portanti dell’industria cinematografica: Joan Crawford e Bette Davis. Le due attrici vivono vite piuttosto differenti, ma la solitudine che le accomuna è la chiave di lettura dell’intera serie, rivelatrice di una crudele realtà.

Feud è una denuncia del mondo hollywoodiano, un mondo talmente luccicante da nascondere l’oscurità che lo tiene in piedi. Bette e Joan sono solo le ultime vittime di schemi incredibilmente maschilisti, che forniscono alla donna una data di scadenza, un momento ben preciso in cui il suo corpo cessa di essere oggetto di desiderio o di un semplice interesse. La decadenza del sistema di cui sono prigioniere è esemplificata in tutti gli otto episodi dalle diverse personalità che lo costituiscono. Produttori, registi e giornalisti sono schiavi di un mondo marcio e meschino, in cui la lotta per la sopravvivenza è in qualche modo rappresentata da una regressione a degli istinti primordiali. Le icone del cinema non sono altro che oggetti, usati e abusati a proprio piacimento da critica, pubblico e dall’industria stessa, fino ad essere intrappolate nella maestosità di questo status. Il deterioramento di quest’ultime non è invisibile agli occhi del mondo, ma è in qualche modo giustificato dal sessismo che fa da cornice a una società inetta e superficiale. Le due attrici sono vittime del proprio dolore, ma il circolo vizioso in cui sono rinchiuse non permette loro di vedere al di là delle proprie ambizioni.

La rivalità di Crawford e Davis non è altro che il manifesto di una realtà brutale, dove non c’è posto per i secondi arrivati e vige la legge del più forte. “Che fine ha fatto Baby Jane?”, girato dalle due attrici, è una rivincita per entrambe, ma il mondo dello spettacolo fa presto a dimenticare i ruoli iconici indossati dalle due e preferisce spostare la propria attenzione verso gli screzi che le vedevano protagoniste.

Feud esegue una minuziosa ricerca al dettaglio, mostrandoci come il rapporto fra le due si sia evoluto nel corso degli anni, trasportandoci dalla fatidica notte degli Oscar in cui Crawford ritira il premio per conto di Anne Bancroft (alla fine della recensione troverete il video originale del suo discorso di ringraziamento) al set di un secondo film insieme. La perfetta ricostruzione della vita di Bette e Joan è ciò che dà alla serie un valore inestimabile; il perfezionismo di Murphy è evidente più che mai e ci mostra, ancora una volta, il suo immenso talento.

La forza dei due personaggi prende sembianze completamente diverse: da un lato l’insicurezza quasi maniacale di Joan e dall’altro l’orgoglio senza limiti di Bette. Per quanto Susan Sarandon ci regali un’interpretazione magistrale della Davis, arrivando addirittura ad imitare alla perfezione la mimica facciale dell’attrice, Feud si concentra maggiormente sulla storia di Joan Crawford. Jessica Lange è la protagonista assoluta di tutti gli otto episodi della serie e ciò è senza dubbio dovuto alla complessità della donna a cui presta il suo volto. L’orgoglio di Joan e il suo costante bisogno di approvazione sono il riflesso di un’orribile solitudine. La vita di Crawford va a pezzi sotto qualsiasi punto di vista e la sua devastazione emotiva ci accompagna per la durata dell’intera stagione. Lange fa suo il personaggio dai primissimi minuti del pilot e rende brillante ogni scena di cui è protagonista. Attraverso le sue parole, il pubblico intuisce immediatamente le numerose contraddizioni di Crawford, ma soprattutto il suo incredibile bisogno di essere amata. La vulnerabilità è però una caratteristica che appartiene a entrambe e il rifugio nell’alcool ne è la prova. Lange e Sarandon ci mostrano i lati inediti delle due attrici, dandoci una spaventosa visione del mondo che le circondava.

Con la morte di Crawford, Feud fa un passo avanti e rivela la sua vocazione didattica, presentando in filigrana un messaggio che lo spettatore è tenuto ad incamerare con la visione. Non si tratta di un messaggio didascalico o moralistico e proprio per questo risulta più efficace. Bette e Joan sono state distrutte da una dimensione che le ha spinte a fronteggiarsi senza esclusione di colpi; il rammarico e la saggezza che giungono con l’avanzare degli anni non portano a un drastico cambio di prospettiva, ma a un dolore senza precedenti. Non esiste salvezza e la crudezza dei rimpianti, che perseguitano le due, è destinata a durare.

Feud conclude questo suo primo viaggio immergendoci completamente nella sofferenza degli ultimi istanti di Crawford, lasciando poi spazio alla malinconia generata dalla sua morte. Il cinico disegno finale è praticamente l’opposto di quello che canonicamente definiremmo “un lieto fine” e ci lascia volutamente con l’amaro in bocca. C’è chi direbbe che la vita non è un film, ma l’equilibrio instabile a cui le due sono sottoposte da sempre e per sempre fa sì che lo spettatore si ponga degli interrogativi piuttosto importanti.

Quanto è diverso il mondo che oggi abitiamo? Esistono altre Bette e altre Joan?

 

Joan Crawford accetta il premio di “Miglior Attrice” destinato ad Anne Bancroft. 

 

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