Westworld1×01 The Original

Westworld - Dove tutto è concesso. Ed è proprio così! Il nostro resoconto, senza spoiler, su una premiere che disorienta e, allo stesso tempo, affascina, coinvolgendo lo spettatore già dopo pochi minuti.

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Noi di SerialFreaks, ieri venerdì 30 Settembre, partecipando al Roma Web Fest, abbiamo avuto il privilegio di vedere, in anteprima assoluta, la premiere della nuova serie HBO: Westworld. Ed eccoci qui a raccontarvi gli infiniti pregi di una serie che affonda le sue radici nell’esistenzialismo più puro, aprendo mille spunti di riflessioni e prospettive. Non vi preoccupate, è SENZA SPOILER!

Con un inconfondibile sound giambico, veniamo introdotti in questo Westworld. Un parco a tema, scandito in storie ed episodi, in cui il visitatore può immergersi nell’atmosfera western, facendo, per un giorno, un tuffo nel passato. Gli attori che intrattengono i visitatori sono detti “host”, ovvero dei robot creati da scienziati futuristici, programmati nei gesti e nelle conversazioni da eseguire. La prospettiva dello spettatore è quella di una ragazza-host Dolores, interpretata da Evan Rachel Wood, (e vi dico che pensare già ad un Emmy non è prematuro), che vive le sue giornate in modo ciclico, con minime -anche se significative- variazioni. Con una struttura ad anello, in cui l’inizio coincide con la fine, le parole di Dolores, i suoi gesti diventano la chiave di interpretazione di una realtà profondamente complessa che disorienta lo spettatore, pur affascinandolo alla massima potenza.

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Tutti i cliché del western– il saloon, il bandito, lo sceriffo, la prostituta- vengono interpretati in chiave post-moderna e proiettati in un’era tecnologica 3.0, in cui la finzione e la realtà si confondono, creando continue ed enigmatiche dicotomie. La prima grande dicotomia, che diviene subito la base concettuale, è quella tra Dormienti e Svegli, per riportare in auge il pensiero di Eraclito. L’arcano di Westworld si cela proprio dietro a ciò: chi è il vero dormiente? Qual è il confine della coscienza artificiale?In questo moderno Truman Show 3.0, il confronto tra il creatore e la creatura non tarda a venire. In una scena nodale, in cui il Dottor Ford si trova di fronte alla propria odissea del peccato si intravede una verità importante: c’è qualcosa in grado di valicare i meccanismi logici della scienza e librarsi oltre gli algoritmi e gli update. Cosa sia questo qualcosa non ve lo svelo, ma vi accorgerete di quanto sia, allo stesso tempo, poetico e terrificante, naturale e inspiegabile. Siamo lì: su un’altalena che, nello stesso minuto, ci porta in dimensioni diverse. Una volta la finzione, una volta la realtà. Ma come in ogni movimento ondulatorio, nessun confine è tracciato, nessun linea è definita e il tutto diviene una commistione di ciò che sembra e ciò che è.

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La percezione è il grande pilastro di questa serie visionaria che fa, non a caso, dell’occhio il suo correlativo oggettivo. La storia si snoda in due emblematiche ambientazioni: il Westworld e il laboratorio futuristico in cui tutto è creato. Il parco rappresenta l’anticittà, lo spazio altro dalla macchina, dal mondo meccanizzato. Il laboratorio è un concentrato luogo di alienazione, perché nella serie – è evidente già dai primi minuti- la macchina diviene, metaforicamente, un animale vorace che falsifica la vita. Ma allo stesso tempo, in un complesso paradosso, l’anticittà è la macchina e il laboratorio è dove si esprime, in tutte le sue sfumature, la coscienza umana. Infatti, ci troviamo sì in un ambiente super tecnologico e sperimentale, ma la dimensione e i meandri tortuosi della coscienza sono sempre gli stessi: la sete di potere, lo scontro generazionale tra vecchia e nuova guardia, la ricerca della Verità sono, da sempre, i pilastri concettuali di ogni tipo di narratio, a partire dai tanto lontani, ma allo stesso tempo vicini Plauto e Terenzio. Alla base di Westworld, infatti, vi è un sostrato ideologico prettamente filosofico ed esistenzialista. Anche se lo spettatore si ritrova in una base scientifica di primo livello, con robot e laser, il nucleo tematico di questa serie non ha niente a che fare con la tecnologia, che appare solo un vincente contesto referenziale. Gli interrogativi sono quelli che si poneva Shakespeare, la coscienza artificiale è quella di cui tanto ha parlato Pirandello, la retorica esplorata è quella di Cicerone. Westworld diviene così una sinossi emblematica del percorso culturale dell’uomo fino al suo approdo sterile alla macchina, usata non per andare più veloci, come ci suggeriva Boccioni, ma per allontanarsi dal proprio subconscio e perder se stessi. La perdita è, infatti, un altro leitmotiv fondante di una serie eccezionale su ogni punto di vista.

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Vi sono Dialoghi magistrali, personaggi memorabili, uno stile retorico sapientemente costruito, particolari interpretativi e un continuo movimento ciclico in cui l’inizio si arricchisce di nuovi significati, per essere compreso, metabolizzato, e poi, alla fine, inesorabilmente smentito. Questa premiere – inutile dirlo- merita 5 porcamiseria, per aver messo in scena la dimensione dell’homo tragicus e della sua coscienza infelice, di hegeliana memoria. Il tutto in dimensione antitetiche, eppure tragicamente affini.

5

 

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