TrustSeason 1 Recap: tante promesse non mantenute

Season Recap Quella che poteva essere una delle serie gioiello della stagione si è invece rivelata una bella confezione con all'interno un prodotto troppo carico di difetti.

5.3

Se si presenta una serie come nuovo prodotto firmato da Danny Boyle bisogna poi assumersi un certo tipo di responsabilità verso lo spettatore, soprattutto se il regista si è occupato esclusivamente dei primi tre episodi: utilizzarne il nome per attirare l’interesse dello spettatore è qualcosa di tutto sommato comprensibile, ma poi bisogna essere in grado di non deluderne le aspettative mantenendone alta l’attenzione e qui, purtroppo, Trust ha fallito.

Durante l’intero arco, Trust fa fatica a trovare una propria identità narrativa

Già alla fine dell’anteprima e, a seguire, parlando del quarto episodio avevamo sottolineato come lo stacco registico si percepisse e quanto rischiasse di impattare la fruizione della serie, una considerazione che ora possiamo dire essere valida per l’intera stagione, a conferma che la mano di Boyle ha influito in maniera decisiva sul risultato di quei primi tre episodi.

Durante l’intero arco, Trust fa fatica a trovare una propria identità narrativa, a causa di una sceneggiatura che in ogni episodio cerca dare un’impronta diversa: un intento meritevole, i cui risultati però non danno i frutti sperati, un po’ per limiti intrinseci, un po’ a causa di regie spesso non all’altezza del compito.

Se, infatti, un regista del calibro di Boyle è in grado di prendere materiale troppo grezzo e trasformarlo in qualcosa di affascinante da guardare, chi non è dotato dello stesso talento finisce per evidenziare i difetti su cui sta lavorando piuttosto che nasconderli abilmente.

Ci troviamo di fronte a episodi schizofrenici nella loro diversità, in cui il focus sui personaggi varia in continuazione insieme al ritmo narrativo, non permettendo allo spettatore di appassionarsi a nessuna delle vicende mostrate e, cosa ancora più grave, ad empatizzare con alcun personaggio. La serie, attraverso la narrazione dell’intero periodo del rapimento Getty,  non riesce mai a decidere cosa vuole diventare: una storia romanzata, un documentario con elementi di fantasia, un qualcosa di liberamente ispirato agli eventi originali o altro ancora.

Ogni episodio, dicevamo, sembra essere un’entità a sé stante, il cui unico punto di continuità risiede nel – lentissimo – avanzamento della storia: una lentezza che, causata da un numero eccessivo di episodi, non è contrastata da nulla se non da virtuosismi narrativi e tecnici che lasciano il tempo che trovano.

Un esempio per tutti: lo sfondamento della quarta parete. Chi scrive non è un fan di questa soluzione narrativa, pur sapendola apprezzare quando sfruttata in modo intelligente (come nella prima stagione di House of Cards): se, però, si decide di utilizzarla,  questa deve diventare un ingrediente costante – anche se non abusato – di tutta la stagione; l’utilizzo in soli due episodi al solo scopo di aggiungere una voce narrante e moraleggiante ottiene come risultato l’impressione che gli sceneggiatori non abbiano saputo trovare un modo diverso per fornire determinate – non sempre necessarie, tra l’altro – spiegazioni e siano dovuti ricorrere a un improbabile deus ex machina.

Il coraggio serve a poco se poi mancano la resa finale e un’organicità narrativa

Di scelte potenzialmente coraggiose la serie è piena, incluso l’avere un episodio recitato esclusivamente in calabrese stretto con sottotitoli, ma il coraggio serve a poco se poi mancano la resa finale e un’organicità narrativa: sorge il legittimo dubbio, anzi, che tale coraggio sia volto proprio a tentare di nascondere i difetti dietro una confezione molto appariscente: si pensi, ad esempio, alle tante scene evidentemente inventate che nulla aggiungono alla storia e che invece sembrano voler abbellire un contenuto scarso.

Si diceva che uno dei problemi alla base è un materiale originale non sufficiente a coprire dieci episodi, tanto che il rapimento stesso ne occupa a malapena sette: nonostante ciò, la narrazione risulta insopportabilmente diluita, pur coi già citati tentativi di arricchimento con sottotrame inutili e fini a loro stesse che puntano il dito sul difetto invece che nasconderlo.

Lo spettatore si trova quindi davanti a un costante esercizio di stile molto lento e spesso esteticamente incongruente da un episodio all’altro che riesce a farlo appassionare alle vicende di nessun personaggio e, anzi, porta a trovare buona parte dei protagonisti irritante o peggio: non possiamo certo escludere che fosse questo l’intento di Simon Beaufoy, considerando la figura di Paul Getty e della sua famiglia, ma anche così fosse non verrebbe certo diminuita l’insofferenza provata in troppi momenti.

Un discorso a parte merita l’episodio finale: la risoluzione del rapimento viene mostrata nella nona e penultima puntata, una scelta di per sé molto anticlimax, ma che avrebbe potuto funzionare in presenza di un epilogo soddisfacente, cosa che il finale non riesce a essere.

La quarta parete viene sfondata in un tentativo di moraleggiare sui destini dei vari personaggi che risulta stucchevole, raffazzonato, irritante e maldestro, in piena violazione della regola show don’t tell: si fa morale sul personaggio di Getty Sr. – operazione inutile, considerando la detestabilità del personaggio -, si fa un’opinabile e mal piazzata morale sulle conseguenze e si mostrano scene di cui non si sentiva alcun tipo di esigenza.

Addirittura ci viene rifilata la classica metafora legata a Re Mida e, per renderla un po’ più chiara, si mette in scena un imbarazzante dimostrazione pratica del concetto, nel caso lo spettatore sia troppo stupido per comprenderla altrimenti.

Tutto da buttare, quindi? No, certamente no, ma purtroppo i lati positivi non riescono a far pendere dal proprio lato il piatto della bilancia finale.

Abbiamo i tre episodi iniziali, summa stilistica di Boyle che meriterebbero solo in quanto tali, e c’è un cast d’eccezione che, quasi sempre, riesce ad aggiungere qualcosa di proprio: Donald Sutherland, ovviamente, ma anche Hilary Swank e un sorprendente Brendan Frasier, senza dimenticare il nostro Luca Marinelli, perfettamente a  suo agio nel ruolo del criminale spietato e non del tutto sano di mente.

Un peccato, perché interpreti del genere avrebbero meritato una cura migliore del prodotto.

Tante promesse non mantenute, quindi, per una serie che poteva essere un piccolo capolavoro e che invece ha finito per involversi su se stessa.

Porcamiseria
  • 5/10
    Storia - 5/10
  • 7/10
    Tecnica - 7/10
  • 4/10
    Emozione - 4/10
5.3/10

In breve

Un’occasione persa e promesse mancate per una serie che aveva potenzialità enormi e che, con qualche episodio in meno e una sceneggiatura più accurata, avrebbe potuto essere un piccolo capolavoro

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Porcamiseria

5.3

Un'occasione persa e promesse mancate per una serie che aveva potenzialità enormi e che, con qualche episodio in meno e una sceneggiatura più accurata, avrebbe potuto essere un piccolo capolavoro

Storia 5 Tecnica 7 Emozione 4
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