The OASeason 1 recap: metafisica dell’immaginazione

Una serie fuori dagli schemi che unisce il fantastico al poetico, un atto di fede verso un racconto dalla credibilità costantemente in bilico. Una serie che mette alla prova la nostra capacità di immaginare e interpretare la realtà.

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Cosa succede se Netflix, la più commerciale azienda distributrice di intrattenimento, produce la più indipendente e autoriale delle idee per una serie tv? Succede che il pubblico va in tilt: “ma è bella o brutta?”, “ma di cosa parla?”, “ma tu l’hai capita?”, “ma quindi lei è pazza?”. Netflix, accettando di produrre la sceneggiatura di The OA, ha deciso di compiere un piccolo salto nel vuoto, esplorare un terreno ancora poco battuto, quello che vede la messa in scena ribellarsi alle logiche spudoratamente commerciali dettate da Hollywood e accogliere con ingenuità e incertezza uno spirito decisamente più libero e poetico, dall’impostazione indie e new age.

“Dovete fingere di fidarvi di me, finché non lo farete davvero”, con queste parole la protagonista della serie ci introduce alla vicenda. Fiducia è la parola chiave, su quella si basa tutto, dallo sviluppo della storia alla visione dello spettatore, una fiducia che viene sorprendentemente ripagata nonostante le stranezze di cui è piena la serie. “Fingere” e “davvero” sono le altre due parole fondamentali della premessa: la finzione e il vero sono concetti relativi, ai narratori è sempre piaciuto mescolarli, così come allo spettatore piace distinguerli dopo essersi perso, per aver la sensazione di aver “capito” quanto visto. In questo senso il lavoro di Brit Marling e Zal Batmanglij si avvicina a quello che da anni svolge M. Night Shaymalan, con risultati non sempre ottimi, con la differenza che quest’ultimo sfrutta le strutture del thriller e dell’horror mentre i primi si concentrano sul dramma umano. Sarà forse un caso il riferimento al vento che scuote le fronde degli alberi sul finale, proprio come in E venne il giorno?

The OA ha la capacità di farci credere nell’assurdo, di immaginare l’irreale così vividamente da sperare che sia reale.

The OA sta per Original Angel (PA, Primo Angelo nella traduzione italiana), è una serie che parla di angeli dunque, di esseri speciali con delle abilità straordinarie, all’apparenza qualcosa che il pubblico abituato a supereroi e fantascienza di ogni tipo non dovrebbe trovare “strano”, eppure questa serie ha suscitato non poche perplessità negli stessi che elogiano le peripezie Marvel o aspettano con impazienza il nuovo Twin Peaks di Lynch, e che sicuramente si arrovelleranno il cervello per cercare di “capirlo”, perdendone il fascino surreale. Potremmo finalmente aver accettato che quindi non è tanto importante di cosa parla una serie quanto il modo in cui lo racconta? No, la trama sembra avere sempre la meglio sull’artisticità delle opere, gli spiegoni sono diventati obbligatori, i finali aperti non soddisfano le voglie del pubblico, i misteri devono essere risolti. Il successo di Westworld ha confermato quello che aveva già sfruttato Lost: il fatto che la passione degli spettatori per le trame intrigate e da districare ha superato definitivamente il fascino per l’assurdo, per il surrealismo, e per l’interpretazione personale. Se siete entrati su questa pagina per avere dei chiarimenti sulla trama, avrete dunque già capito che le speranze sono vane, anche perché di complicato da capire, in realtà, c’è molto poco.

Brit Marling, autrice e interprete protagonista della serie, si era fatta notare nel 2011 con Another Earth, film in cui già la componente fantascientifica era sfruttata come pretesto per esplorare l’identità umana. Zal Batmanglij, autore insieme alla Marling e regista degli 8 episodi, lo aveva fatto invece con The East, dall’approccio ben più concreto. Facile capire chi ha influenzato chi: The OA racconta la storia di Prairie Johnson, che, scomparsa da 7 anni, torna con la vista e qualche trauma di troppo; espone il suo racconto su quanto accaduto nei 7 anni in questione e il suo piano per accedere ad un’altra dimensione tramite delle speciali capacità acquisite grazie ad una esperienza ultraterrena simile alla morte, lo racconta a 5 persone, Steve, Alfonso, Jesse, il transgender Buck, e la sensibile prof. Betty (voce di Tristezza in Inside Out). Il finale lascia aperta l’interpretazione sulla verità del racconto di Prairie, a causa del ritrovamento dei libri e del modo ambiguo in cui i 5 “angeli” (non) hanno fermato il potenziale assassino in mensa, cioè distraendolo, ma l’ultima scena non può che confermare l’autenticità della dimensione “post”-mortem; quindi che si sia inventata o no (in quel caso l’accoppiata FBI – mafia russa potrebbe aver giocato il suo ruolo) gran parte del racconto, non può influire sul nostro giudizio finale.

L’esperienza che propone The OA, che sceglie di differenziarsi dal mare di serie scritte perfettamente e perfettamente banali, fa riferimento ad una serie di pratiche mistico-religiose collegabili a rituali buddisti e a teorie di psicomagia dalla nulla valenza scientifica, una metafisica dell’immaginazione. L’utilizzo teatrale del corpo sembra a tratti ridicolo, e lo sembra perché è messo in scena con semplicità e immediatezza, al contrario di gran parte delle serie e dei film fantastici in cui la spettacolarizzazione del banale la fa ancora da padrona. L’eccezione di The Leftovers ha dimostrato che un’impostazione così immaginativa della messa in scena può funzionare e The OA gli è in qualche modo debitrice e figlia. La serie è comunque lontana da essere perfetta, principalmente a causa di una scrittura troppo poco solida. Gli espedienti per far risultare la trama più avvincente spesso sono troppo slegati e hanno poco peso all’interno della vicenda generale (la lite di Hap con l’amico scienziato e il triangolo caraibico Homer-Prairie-Renata su tutti). La scrittura dei movimenti sulla pelle buttata frettolosamente nella mischia delle informazioni senza un vero senso, la facilità con cui Hap gestisce la tecnologia dietro il suo progetto è poi veramente non-credibile. La scusa del “la storia se l’è inventata Prairie quindi tutto è possibile nella sua mente” non vale, perché lo spettatore deve poter credere a quella storia fino all’ultimo episodio.

Se invece della parola “angelo” si fosse usata “prescelto” o simili, e se i movimenti fossero stati più simili all’immaginario collettivo degli incantesimi, in pochi avrebbero rifiutato a priori questa serie forse troppo ambiziosa, come purtroppo è accaduto. Il difetto principale della serie, la scrittura precaria e poco credibile, diminuisce di valore se rapportato al tema della fede coraggiosamente portato avanti: il bello di The OA è la capacità di farci credere nell’assurdo, di immaginare l’irreale così vividamente da sperare che sia reale. La scena dello sventato massacro in mensa è l’apice di questa straordinaria capacità: i 5 (e suo padre) decidono di credere nel racconto di Prairie, esattamente come facciamo noi quando clicchiamo “play” su un altro episodio; non è questa l’essenza di un racconto?

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