The Night OfSeason 1: Quando il drama si veste da crime

Una notte misteriosa, quella che cambierà la vita di un ragazzo comune. La storia di un lento e complicato processo, in cui la verità diventa un concetto relativo e costringe i suoi protagonisti a fare i conti con la propria coscienza.

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Il titolo ci aveva avvisato. Non pensate di conoscere la conclusione della frase, né tantomeno i fatti a cui si riferisce, e sappiate che più che l’incertezza della verità, la notte è l’unica vera protagonista della storia. Un preambolo tutt’altro che leggero per una serie che invece all’apparenza offre tutti i tratti di una crime story tradizionale.

The Night Of è una miniserie HBO – ispirata alla poco conosciuta serie britannica Criminal Justice della BBC – scritta e diretta da Steven Zaillian, che ad Hollywood è ormai più di una certezza (Schindler’s List, Gangs of New York, American Gangster, e Millennium – Uomini che odiano le donne), con la collaborazione di Richard Price, meno noto addetto ai lavori di molti polizieschi (The Wire). L’intreccio è quanto di più semplice un crime processuale possa offrire: un ragazzo, Nasir “Naz” Kahn conosce una bella ragazza, Andrea, e dopo aver passato la notte a casa sua, e dopo l’ecstasy, e dopo la ketamina, svegliandosi la ritrova brutalmente uccisa. Dopo esser stato arrestato come principale indiziato, un avvocato da quattro soldi, John Stone, si offre di lavorare alla sua difesa. Tutto ciò, qui semplificato al massimo, viene raccontato magistralmente in un pilot che tiene alta la tensione in 80 minuti come non se ne vedono spesso in TV: ogni dettaglio è denso di significato, il realismo mai banale, le ansie e le paure di Naz forti e sincere, merito anche di un Riz Ahmed impeccabile e sorprendente. I seguenti 7 episodi seguono le successive fasi processuali, e risulta chiaro come il pilot fosse solo il pretesto per raccontare la vera storia, quella che scava nella natura dei personaggi, di Naz, ma soprattutto di John, grazie anche all’interpretazione di John Turturro che è un vero e proprio capolavoro.

L’impostazione narrativa è quella tipica dei romanzi, non tanto di quelli investigativi di Arthur Conan Doyle, quanto di quelli di Raymond Chandler, togliendo la componente noir e tenendone la durezza. Pochi colpi di scena, che anche quando ci sono cercano in tutti i modi di non sembrare tali, e nessun cliffhanger, non ce n’è bisogno: non conosciamo quanto è accaduto veramente, nessuno dei protagonisti lo sa, lo stesso Naz non ne è sicuro, il colpevole potrebbe essere lui, come potrebbe essere uno degli altri tre sospettati, come potrebbe essere qualcuno del tutto fuori dal quadro generale; sebbene la struttura sia quella del poliziesco l’obiettivo non è mai trovare il colpevole. L’unico inseguimento finisce nel nulla, le dichiarazioni che sembrano più rivelatorie finiscono nel nulla, i video delle telecamere, le speculazioni sulle ferite, così come il giudizio finale della giuria, tutto finisce in un niente di fatto che annulla ogni componente thriller e amplifica quella tragica.

La trasformazione di Naz in carcere, da sprovveduto studentello con la maglia del college, a (quasi) assassino, o quantomeno a complice, è sorprendente, e forse sorprendentemente veloce. Con il numero di tatuaggi crescono anche i muscoli e la sicurezza di non aver nulla da perdere, lo sguardo diventa cattivo, che comunque non vuol dire colpevole. Riz Ahmed, pure in questa trasformazione così radicale e a tratti inverosimile, risulta sempre convincente; lo avevamo visto in Four Lions e in Lo sciacallo, e ora dimostra che può essere molto più di una spalla. Anche tutto il resto del cast fa un buon lavoro, a cominciare dai genitori di Naz: Poorna Jagannathan e da Peyman Moaadi, interprete tra le altre cose anche di quel piccolo miracolo che è Una separazione, e che – curiosità – ha in realtà solo 10 anni in più di Ahmed.

Altra storia è quella di John, che se ne va in giro per New York a cercare disperati rimedi per il suo eczema, che professionalmente fallito difende delinquenti di poco conto per pagarsi la pubblicità sulla metropolitana, che allergico ai gatti è troppo buono per abbandonarne uno, che crede nel futuro del figlio nonostante non ci sia una famiglia su cui costruirlo. Turturro delinea, con una recitazione anche fisica, uno dei personaggi migliori del 2016 televisivo, disilluso e concreto, triste e fiducioso, anonimo già dal nome, uno sfigato senza dubbio, ma di quelli che sanno cos’è l’umanità. Ci regala un finale da lacrime, lacrime svuotate di ogni vitalità come lo è la quotidianità di John. Curioso il fatto che avrebbe dovuto interpretare il ruolo James Gandolfini; il pilot, fino al punto in cui entra in scena John, fu infatti girato nel 2013 e la realizzazione rimase bloccata per tre anni, causa la morte del protagonista de I Soprano. Lo stacco non si nota, e con buona pace di Gandolfini, Turturro sembra nato per recitare questa parte.

The Night Of riesce dove True detective, quello della seconda stagione, ha fallito, e cioè nel mettere in scena dei personaggi veri, costantemente sopraffatti dalla loro vita più che da un infinito ed ingarbugliato intreccio investigativo. Al contrario di molte serie dallo stampo prettamente commerciale poi – di cui How to get away with murder è un ottimo esempio – qui il ruolo dell’avvocato acquista finalmente un’umanità, complessa e inevitabilmente triste. La fatica del lavoro, le difficoltà economiche, le implicazioni etiche, l’austerità degli uffici, i piccoli gesti, come il mettersi le scarpe da ginnastica alla fine del processo, da parte dell’avvocato dell’accusa, o il ruolo del detective in pensione interessato alla verità ma forse troppo stanco per cercarla, rappresentano al meglio la travagliata natura della professione. The Night Of risponde in qualche modo anche all’ondata di docu-fiction crime che ha recentemente invaso i canali TV, di cui The Jinx e Making a Murderer sono i perfetti rappresentanti per qualità e popolarità e per cui la scoperta del colpevole rappresenta l’unica ragion d’essere.

La notte è l’unica vera protagonista della storia, la notte come simbolo dell’oscurità dell’animo umano 

La fotografia è desaturata, i toni del grigio la fanno da padrone, la costruzione dell’immagine sempre studiata nei dettagli, tutti i particolari contribuiscono a creare un’atmosfera pesante e fumosa, come la sigla ci anticipa. Il titolo ci aveva avvisato: la notte è l’unica vera protagonista della storia, la notte come simbolo dell’oscurità dell’animo umano, dei fallimenti, dei peccati commessi, di quelli che commetteremo, e di quelli che non sapremo di aver commesso, ma che pure ci appartengono.

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