The Good Fight1×03 The Schtup List

Nel terzo episodio di The Good Fight, le vicende di Diane e degli altri protagonisti diventano metafora dell'America dei giorni nostri, all'alba dell'amministrazione Trump.

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Quando Robert King, il creatore di The Good Fight, affermò di aver letteralmente buttato via gli episodi scritti prima della vittoria di Donald Trump per riscrivere completamente la serie, di certo non deve avere usato eufemismi. E questo terzo episodio ne è sicuramente la conferma.

The Good Fight 1x03 The Schtup List recensione

The Good Wife ha sempre brillato nel riuscire a contestualizzare le proprie storie all’interno della più stringente attualità e anche il suo spinoff sembra aver ereditato questa pregevole caratteristica. Nella più classica delle strutture a filoni paralleli tanto cara ai legal drama, i coniugi King ci regalano un episodio che ancora una volta ci offre uno spaccato dell’America dei giorni nostri, divisa tra le diatribe intestine all’alba dell’amministrazione Trump e la preoccupazione con cui guarda a quel Medio Oriente apparentemente così lontano eppure così vicino al mondo occidentale per le preoccupazioni destate dall’ISIS.

The Schtup List si articola in tre filoni distinti che permettono non solo di mettere a fuoco le dinamiche ancora tutte da scoprire della serie, ma anche di dipanare i temi di cui sopra.

La parte più strettamente legal, destinata all’usuale caso della settimana, è affidata alla coppia Diane/Lucca, la cui partnership è in qualche modo coatta, ulteriore mossa di quel gioco di potere iniziato da Barbara, che evidentemente tiene a marcare il suo territorio nei confronti di Diane. Il caso è sicuramente spinoso e costruito magnificamente: un medico americano viene arrestato con l’accusa di terrorismo durante un’operazione chirurgica via Skype, effettuata cioè suggerendo via cam un intero piano chirurgico, sperando così di riuscire a salvare la vita ad un ragazzo nella lontana Siria, presunto militante dell’ISIS. L’udienza per la custodia preliminare si trasforma in poche ore una vera e propria corsa contro il tempo: stabilire l’innocenza del medico coinciderà con l’opportunità di salvare una vita umana, al di là dell’etnia, al di là del credo religioso. E quando chi giace su una lettiga in un campo siriano si dimostrerà essere un cittadino americano, i diversi punti di vista, le varie interpretazioni offerte dalla legge, i dettami della Convenzione di Ginevra, le sfaccettature molto lontane dal senso comune della legge militare, faranno vacillare le sicurezze di chi sta guardando, che sia repubblicano o democratico, che sia un pacifista o un guerrafondaio. La forza di The Good Fight è anche questa: alla fine non ci saranno né vincitori né vinti, perché una morte, di per sé, non sarà mai una vittoria per nessuno.

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Chiudendo questa parentesi filosofica, il caso di Diane e Lucca, al di là del risveglio delle coscienze, servirà a creare delle basi per una partnership possibilmente fruttuosa tra le due ma anche, e soprattutto, per introdurre un altro regular di The Good Fight, Colin Morrello, affascinante procuratore interpretato da Justin Bartha, già protagonista di The New Normal. La sua rivalità con Lucca diventa in poche sequenze carica di una tensione sessuale altissima, che preannuncia scintille tra i due.

Parallelamente al caso in aula, Adrian e Barbara dovranno fare i conti col pericolo di un’ingente perdita per lo studio, tale da poterne implicare addirittura la bancarotta. La loro fin troppo esplicita posizione politica, nell’era di Trump, potrebbe far venire meno infatti degli importanti introiti. Per ovviare alla situazione, si cercherà un escamotage che avrà le fattezze di Julius Cain, apparentemente l’unico membro dello studio ad aver votato Trump. Pur senza esplicite critiche all’attuale Presidente, la bizzarra situazione dello studio diventa specchio di quella gran parte dell’America – e del mondo – che si chiede come sia stato possibile questo risultato.

La ricerca dell’ago nel pagliaio, in uno studio con una forte predominanza di personale afroamericano, e la paura di Julius di essere ostracizzato dai propri colleghi, diventano metafora della realtà americana ai giorni nostri. Al tempo stesso, anche la motivazione data da Julius per giustificare il suo voto – il caro e vecchio conservatorismo repubblicano – non appare squinternata o fuori dal mondo, a significare che il senso della democrazia negli Stati Uniti è ancora molto forte, in un modo che forse noi italiani non potremmo comprendere mai appieno, sempre troppo condizionati da populismi e campanilismi di vario genere.

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Non ci si dimentica certo della trama orizzontale di The Good Fight, con un breve accenno ai problemi finanziari di Diane – e Dio solo quanto espressiva e carica di significati possa essere la mimica facciale di Christine Baranski – e un affondo sulle beghe familiari di Maia. La ragazza si troverà a fare i conti con la presunta combutta tra la madre Lenore e lo zio Jax, consumata apparentemente anche tra le lenzuola: ne conseguono tre brillanti confronti – incluso quello col padre in carcere per metterlo in guardia dalle manovre dei due fedifraghi – che daranno il la ad una vera e propria investigazione di Maia per poter arrivare alla verità. L’intensità di Rose Leslie continua a convincerci parecchio, e non possiamo non citare la bravura di Bernardette Peters nell’interpretazione della sua Lenore e la simpatica complicità di Marissa, il cui ruolo in The Good Fight inizia a prendere forma e che, siamo sicuri, si rivelerà essere molto più di quello di una semplice assistente.

Scrollatasi di dosso l’eredità del suo predecessore, privandosi di nostalgici e sempre facili riferimenti all’opera primaria, The Good Fight si presenta come un raffinato legal drama che sfrutta sapientemente i punti di contatto con The Good Wife, ma a cui sa però aggiungere del pepe e della sensualità che rappresentano quella sferzata di energia e di freschezza a cui auspicavamo tutti all’alba di questo spinoff.

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