The Get DownThe Get Down Season 1 – Part 1

The Get Down è la storia di un gruppo di ragazzi di un Bronx assediato dal crimine e dalla povertà, ma anche culla del nascente hip-hop. Tra DJ, emcees, writers e breakdancers, Baz Luhrmann offre uno spaccato interessante ma edulcorato della società neyorkese dei tempi, con la musica a fare da collante e a salvare un esordio d'opera altrimenti mediocre.

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Dopo lo sfacelo di Vinyl, cancellato dopo la prima stagione a causa di un’accoglienza piuttosto fredda da parte del pubblico, ogni serie-flashback a tema musicale rischia di farci storcere talmente tanto il naso da deviarci il setto nasale. Con The Get Down, nuova serie Netflix sulle origini dell’hip-hop, il progetto è ambizioso: il creatore Baz Luhrmann (Moulin Rouge, The Great Gatsby) ci ha messo letteralmente dieci anni per completare e rifinire il concept della serie, con ingenti investimenti e un grosso team di scrittori e produttori musicali attinenti al genere.

the get down recensione serialfreaks - 2

Non si può infatti parlare di hip-hop senza citare Grandmaster Flash, DJ Kool Herc (che avranno un ruolo ben presente sin da questi primi episodi), Afrika Bambaataa e le guerre musicali tra le fazioni rivali della città, ed è in questo setting che si sviluppa la storia, o per meglio dire le due storie di The Get Down, in un Bronx devastato da povertà e criminalità, con le elezioni comunali del 1977 alle porte – vinte poi da Ed Koch.

Da una parte abbiamo Zeke Figuero, giovane disilluso dal mondo dei bianchi ma molto bravo con la penna e con le rime, e i fratelli Ra-Ra, Boo-Boo e Dizzee Kipling, amici del protagonista con i loro personali talenti artistici. I quattro avranno a che fare con Shaolin Fantastic, DJ in erba e writer invischiato nella malavita del Bronx, amante del boss della droga Fat Annie, e inizieranno a costruire la loro crew affascinati da questa nuova corrente musicale e dallo stile del guru Grandmaster Flash.

Dall’altra abbiamo Mylene Cruz, ragazza con una gran voce ma le cui ambizioni entrano in conflitto con il fanatismo religioso del padre Ramon. La ragazza sogna la disco music, genere musicale di punta del decennio, e ambisce ad una carriera come quella di Donna Summer. Affiancata dalle amiche Yolanda e Regina, a sua protezione arriverà lo zio Francisco “Papa Fuerte” Cruz, un politico del Bronx arrivato dove non è arrivata l’amministrazione cittadina a fornire sostentamento alla popolazione. Lo zio asseconderà i suoi sogni dandoli in mano al produttore musicale in declino Jackie Moreno, e tenterà parallelamente di ristabilire il tessuto sociale del quartiere con astute alleanze politiche.

I due filoni narrativi si intrecciano, i due protagonisti sono palesemente innamorati ma hanno le loro ambizioni a frenarli, tra prospettive di lavoro per Zeke che non tarderanno ad emergere, visto il suo potenziale, e l’inevitabile talento di Mylene che dovrà pur venir notato da qualcuno.

Nonostante le ottime premesse, il più grande freno alla visione di questa prima parte di stagione è proprio il pilot, eccessivamente lungo – forse per assecondare Luhrmann, non avvezzo alla direzione di serie tv – e chiaramente infarcito di cliché e dialoghi stranianti, probabilmente distanti dal reale contesto culturale del Bronx. Anche laddove si vuole dare l’impressione di degrado e vita al limite dell’insostenibilità, la volontà di romanzare e di ripulire le radici della cultura hip-hop da ogni imperfezione snatura la storia che ci viene raccontata.

Baz Luhrmann potrebbe persino essere la causa della rovina della sua stessa creazione, conducendo i primi passi di un drama fine a se stesso per i primi 90 minuti, nel quale ogni scelta narrativa suona trita e ritrita e in cui i riferimenti culturali annaspano e vengono affrontati troppo sommariamente, rimediando solo verso la fine dell’episodio. Si vede del potenziale, ma si è anche terribilmente annoiati, complice la lunghezza della première e una trama che fatica a decollare fino almeno ai primi 45 minuti.

I temerari che proseguiranno l’avventura di Zeke, Mylene e compagnia cantante (e danzante), sebbene occasionalmente tediati da dialoghi troppo cheesy per essere nel Bronx, inizieranno a notare vistosi miglioramenti nell’apparato narrativo, più coesione e crescita individuale dei personaggi, ma soprattutto una storia che farà capire i tecnicismi dell’hip-hop anche ai meno avvezzi. Tutto apparirà più ordinato e meno volto al clamore – nonostante una sequenza particolarmente trash nel secondo episodio che o vi conquisterà o vi farà disdire l’abbonamento a Netflix – portando all’attenzione dello spettatore anche la quotidianità del famoso quartiere di New York.

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Il giro di boa è indubbiamente il punto più alto di questa prima metà di stagione, ambientato durante la notte del blackout totale della città, il 13 luglio 1977. I personaggi riflettono sul proprio destino e i propri sentimenti, mentre il montaggio ci offre spezzoni del vero blackout, con negozi saccheggiati e dati alle fiamme – ma solo quelli dei bianchi. Il resto si dipana quasi senza esitazione verso un finale interessante ma piuttosto telefonato, intrecciato con la politica della città e con il conflitto tra velleità artistiche e potenzialità professionali del protagonista. Ci rimane un curioso sottotesto, alla fine di questi primi sei episodi di The Get Down: puoi spacciare droga, uccidere e rubare quanto ti pare, ma distribuire bootleg di lavori originali è il più grande crimine di cui tu possa macchiarti.

La musica è sempre al centro di tutto, con una colonna sonora eccezionale, tanto talento volto a rendere diversi segmenti parlati quasi come se fossero in rima o cadenzati, i “previously on…” e i flash-forward verso uno Zeke ormai famoso – doppiato da Nas, scusate i brividi lungo la schiena – ma anche un’inaspettata strizzata d’occhio al mondo queer e alla cultura del voguing e delle drag queen. Non è il verismo di Paris is Burning, ma è pur sempre un’interessante incursione nel mondo delle “fairies” newyorkesi.

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The Get Down, nonostante un pilot un po’ troppo dilatato e traballante, potrebbe meritare la vostra attenzione, chiudendo un occhio sulla resa a tratti eccessivamente romanzata e su alcuni dialoghi oltre il limite del cliché. Non appena si ingrana la seconda tuttavia, il potenziale della serie esce timidamente allo scoperto, grazie a una resa globalmente più verace, a degli attori calati perfettamente nella parte – specialmente Mylene/Herizen Guardiola – ma soprattutto grazie alla musica, che potrebbe sì salvare Mylene e Zeke dalla povertà, ma salva anche noi da un prodotto televisivo altrimenti mediocre.

3.5

 

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