Dopo un esordio non certo eccezionale, il nuovo corso di Suits continua con episodi che potremmo definire a corrente alternata.
L’apice di questa seconda vita per la serie è rappresentato sicuramente dalla freschezza della storyline di Mike, a dispetto di un’ambientazione carceraria fin troppo patinata nelle sue divise in stile Abercrombie (cit. Carmen) e nell’assenza di toni forti ed esasperati. Se riusciamo però a sorvolare su quelle che sono – se vogliamo – delle pecche stilistiche, ci troviamo di fronte all’unica vera storia che riesca a suscitare un reale interesse nella sua evoluzione. La nuova dimensione di Mike permette di raccontare una storia finalmente accattivante, che sfugge ai consueti canovacci narrativi di Suits senza però tradire la caratterizzazione del giovane ex ragazzo prodigio.
Nei tre episodi che seguono la premiere di stagione, ne emergono tutti i caratteri distintivi: la capacità di adattamento in un ambiente estraneo, con annessa analisi dei comportamenti e delle regole, la lealtà verso il compagno di cella, l’arte tutta forense nel trovare un cavillo, un vizio di forma che possa portare ad un compromesso per salvarsi la pelle dal pericoloso Frank Grillo. Al tempo stesso però, abbiamo potuto conoscere anche un Mike Ross impaurito, che teme per la sua incolumità nonché per quella di Kevin Miller, unico volto amico tra tutti gli ospiti del penitenziario. E ancora, in Turn, non possiamo non commuoverci per lo struggente incontro con Rachel, sulla dolcezza delle scene a letto, su quanto profondo possa essere l’amore che li lega, forte al punto da farlo venire meno ai suoi princìpi. Seppur nella confezione patinata di Suits, avvertiamo insomma un netto cambio di registro, c’è da riconoscerlo, e la scommessa degli autori appare finora vinta.
Se la scelta di tenere Mike isolato dal resto del cast fisso si sta rivelando vincente – anche perché coadiuvato da ottime scelte in fatto di cast per quel che riguarda i suoi comprimari -, il resto del cast sembra invece piuttosto impantanato, tra svolgere il ruolo di anello di congiunzione con Mike e le solite trite e ritrite dinamiche di Suits.
Se il percorso narrativo di Mike appare fin troppo delineato e studiato – apprezzabile ad esempio la graduale virata da una storia dalle tinte forti e violente ad una più attinente a giochi di potere dal sapore vagamente legal – quello relativo alla Pearson, Specter & Litt appare confuso e privo della benché minima originalità, appiattendo completamente, peraltro, il resto del cast fisso. In Accounts Payable si pensa bene di riportare in scena Jack Soloff e Robert Zane per minare nuovamente il già difficile futuro dello studio, mentre in Back On The Map, Harvey deve lottare per portare lo squalo di turno tra le file dei clienti dello studio e dargli così un po’ di respiro. Probabilmente non senza ripercussioni, ma per il momento, tutto vien messo in standby. Se è vero che quest’ultima storyline potrebbe essere l’altro grande leitmotiv della stagione, al momento il piano degli autori per la sopravvivenza dello studio appare alquanto oscuro – a patto che ne esista uno – e quella che dovrebbe essere un’enorme crisi con un mare magnum di possibilità per un’evoluzione dei personaggi, sembra più un enorme punto interrogativo e gli stessi ne escono per giunta completamente appiattiti.
Harvey Specter è impantanato nella sua funzione di anello di congiunzione con Mike, bloccato tra i sensi di colpa per l’amico finito in carcere alla mercé di Grillo e i fallimentari tentativi di salvaguardarne l’incolumità, ma non si riesce ad intravedere per lui un percorso personale che vada al di là del legame con Mike. Confidiamo anche qui negli sviluppi della storyline relativa a William Sutter.
Jessica Pearson è confinata nel suo consueto ruolo di donna in carriera, fatto di minacce, discorsi intimidatori o bossy e camminate furenti, nonostante dei timidi tentativi di umanizzazione, come il divertente momento con Gretchen e Donna in Accounts Payable o il vestire i panni di mentore per Rachel alle prese con le sue prime beghe professionali in Back On The Map.
Rachel Zane è probabilmente l’unico personaggio che non appare schiacciato dalla banalità della sceneggiatura, e per lei si intravede anzi una graduale crescita, nelle vesti di studente e dedita a nobili cause, quasi avesse temporaneamente raccolto l’eredità di Mike Ross. Pur senza dimenticare il fidanzato in carcere, il suo “andare avanti” ci viene raccontato in maniera convincente e soprattutto consistente, senza forzature o conigli tirati fuori dal cilindro.
Le parti più leggere sono riservate finora quasi interamente a Louis Litt, coinvolto in assurde controversie con i broker che affittano i locali vuoti dello studio ma che puzzano già di vecchio – quante volte ci hanno propinato simili siparietti? – e perdutamente invaghitosi di un giovane architetto in Turn, interpretato dalla bella Carly Pope (ex Popular).
Sullo sfondo, infine, Donna Paulson anonima come non mai, impegnata nelle consuete mansioni di segretaria/coscienza di Harvey. Di lei si possono citare unicamente i siparietti comici con Gretchen in Accounts Payable. Quasi c’è da rimpiangere il Darvey.
Come potete capire dal tono generale di questa recensione, i tre episodi sono sostanzialmente identici nella forma ma anche nel giudizio, con gli stessi punti di forza e con gli stessi – numerosi ahimè – nei. Non ci si discosta dunque dai due porcamiseria e mezzo anche se, per amore di oggettività, Back On The Map meriterebbe forse qualcosina in più.
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