SpecialiLe serie TV degli anni ’90: quando Super Vicki era il nostro Westworld

Vi ricordate quando i supereroi erano Ralph e Ultraman? Quando pensavate si potesse dormire dentro l'armadio come Super Vicki e sognavate le sospensioni del Generale Lee? SerialFreaks vi porta a fare un giro nei meravigliosi anni 80-90 della tv italiana, quando anche le serie avevano l'acne giovanile!

È un normale giorno scolastico del 1994 (anno 21 Ante Netflix) e con una scusa qualsiasi distraggo mia madre così da avere qualche minuto per posizionare il termometro sul calorifero. Ho già gettato nel water (con non pochi lamenti) un cumulo di Gran Turchese e latte talmente pasticciati da sembrare un veritiero vomito, ma so che, senza l’evidenza termica, non basterà a placare i sospetti della donna. Vittoria infine! L’autorità è battuta, la mia micro-ribellione al sistema mi ha garantito una mattinata priva dell’istruzione canonica per consegnarmi invece alla luminosa e catodica maestra.

Erano tempi spensierati quelli, quando Mediaset, con un’abile strategia detta “lettere dello Scarabeo”, poteva prendere una manciata di episodi a caso di serie tv improbabili e imbastire un palinsesto mattutino che, per motivi ancora in fase di analisi, verrà ricordato come cult. Indubbiamente ci si accontentava di poco e, nonostante fossero da poco spenti gli echi dell’annosa domanda (per me allora incomprensibile) su chi avesse ucciso Laura Palmer e nelle orecchie risuonassero in loop gli Happy Days, la serialità in Italia non era cosa seria. La mancanza di continuity non placava però il desiderio di fiondarsi su Italia1 a seguire le sconnesse vicende dei protagonisti di allora.

Così, non curanti dei simbolismi impliciti, eravamo pronti a salire sul Generale Lee e fare compagnia a Bo e Luke, due ragazzi in gamba con una marcia in più, che ben prima di Grand Theft Auto hanno plagiato frotte di spettatori sulle reali capacità delle sospensioni delle automobili. Supercar aveva dalla sua almeno il fatto che la macchina fosse potenziata, e, nonostante non capissi nel dettaglio le trame della serie, il fatto che la macchina interagisse con David Hasselhoff e avesse più optional di un coltellino svizzero e opinioni più sensate di una soubrette del Bagaglino mi bastava per quei quaranta minuti di svago. Lo stesso Hasselhoff avrebbe poi contribuito, insieme a Spielberg, alla fobia per l’acqua alta, quando, insieme a un gruppo di sgallettati, cercava di vendere come interessante la vita dei bagnini americani. I polizieschi non suscitavano in me lo stesso successo, per cui Chips e Charlie’s Angels non rientravano tra i miei preferiti.

Tutt’altra opinione avevo di MacGyver: impossibile non rimanere affascinati da quell’ingegno multiforme che sminuiva qualsiasi riparazione tuo zio sapesse fare. Sul versante comico andava decisamente meglio, e Mediaset poteva contare su prodotti iconici, a partire dal filone black, con I Robinson a fare da apripista e poi con Otto sotto un tetto (e Steve Urkel precursore della svolta nerd attuata anni più tardi da The Big Bang Theory). Qualche anno dopo arrivò anche Willy, il principe di Bel Air, che consegnò ai giovani degli anni ’90 il loro primo personaggio di riferimento. Negli stessi anni faceva capolino Leonardo Di Caprio in qualche comparsata per Genitori in blue jeans, altra sit-com che dava spazio alla famiglia allargata, modello che pian piano veniva esportato dagli Stati Uniti all’Italia. A ciò contribuì sicuramente il buon vecchio Settimo Cielo, l’insostenibile epopea della coniglina famiglia Camden che ha mosso all’immoralità fiumi di spettatori solo per schiodarsi dai pipponi di Ned Flanders del pastore. Seventh Heaven lo ricordo, forse plagiato, come uno dei primi modelli di continuità adottati da Mediaset.

Lontani anni luce dalle serie superomistiche attuali (ma spesso superiori a qualche show presente [ehi, chi ha detto CW?]), anche in quell’epoca barbara esistevano personaggi dotati di facoltà straordinarie, come Ralph Supermaxieroe  Il mio amico Ultraman, che, oltre a un imbarazzantissimo titolo italiano, presentava l’ennesima storia di un ragazzo con superpoteri dedito alla lotta contro il male. Contemporaneamente apparivano i primi Power Rangers (gli originali!), alla cui memoria è sopravvissuta l’indimenticabile sigla. Prendeva piede intanto anche il filone mitico, con Kevin Sorbo impegnato a sollevare sassi di cartapesta più improbabili del mio vomito di Gran Turchese, e Lucy Senzalegge Lawless che lanciava dischi orari dando sfogo alla propria ugola; ancora oggi, quando penso a spin-off e crossover, i primi esempi che mi vengono in mente sono le due serie summenzionate. Allora come oggi le strade di Central City erano pattugliate da Flash, quando però a interpretarlo era ancora il padre di Dawson – e del Barry Allen di Grant Gustin – e il costume era molto meno ridicolo di quello che indossa adesso nella serie omonima.

Tutto cambiò anni dopo: Friends rivoluzionò le situation comedy e nonostante capissi realmente la metà di quello su cui ironizzava quel gruppo di amici di Manhattan, era diventato per me un appuntamento imperdibile, conscio delle prime avvisaglie di trama orizzontale, già intraviste con La Tata. Così sentivo anche amici che guardavano E.R. Medici in prima linea, per me impensabile, impressionabile com’ero (e sono) alla vista di un camice. Ma il vero colpo di fulmine di quegli anni fu Buffy, l’Ammazzavampiriun concentrato di azione, humor e problemi adolescenziali declinati nell’ottica di una quotidiana fine del mondo. Fu proprio Buffy a segnare il mio rancore per il palinsesto ballerino di Italia1, una ferita mai più rimarginata, che mi portò all’insonnia per seguire le avventura della Cacciatrice e non solo. La programmazione notturna del canale giovane di Mediaset presentava piccoli gioielli come Dark Angel, con Jessica Alba intenta a scrollarsi di dosso l’innocenza che sprizzava al mattino negli episodi de Le nuove avventure di Flipper. A farle compagnia, nella notte televisiva, anche un improbabile Invisible Man e Once a Thief, serie action ispirata all’omonimo film di John Woo e il cui finale mi lasciò a bocca aperta.

L’universo televisivo seriale di quel ventennio era in piena espansione, e tanto tempo richiederebbe analizzare quel periodo di passaggio che ha trasformato la qualità di quel prodotto mediatico. In mezzo a quel processo evolutivo un’intera generazione è cresciuta, accompagnando le serie con cartoni animati d’altri tempi, seguendo la nascita dei generi seriali televisivi (con Beverly Hills, Melrose Place) e consacrando icone rappresentative di quegli anni (Magnum P.I., A-Team). Non è quindi una mera coincidenza che la richiesta di serialità sia oggi così elevata e critica, inevitabile conseguenza di una narrazione che è cresciuta seguendo i ritmi della vita di chi, dalla televisione, ha attinto una considerevole parte del proprio immaginario.