SpecialiL’urna catodica

Tutta la politica in TV senza passare dalla Maratona Mentana: da un'idea di Stefano Accorsi il nostro speciale sulla narrazione elettorale nelle serie più famose. Astanbidining.

Scrivere uno speciale sulla politica nelle serie TV a una settimana da quello sulla distopia può suggerire inquietanti parallelismi: senza essere così drastici, è il calendario, con la sua ricorrenza elettorale, a spingerci a passare in rassegna quegli show televisivi che si sono distinti per la loro accentuata componente politica, confermando che, al di là dei talk show e dell’infotainment, vi è una narrazione qualitativamente rilevante riguardo i meccanismi che sottendono le democrazie occidentali.

Tele-v(u)oto

Le primarie televisive vedono diversi concorrenti sfidarsi per lo scranno più alto e sicuramente House of Cards è tra i favoriti. Nonostante il discusso (non discutibile) licenziamento di Kevin Spacey seguito allo scandalo sulla sua condotta sessuale, la serie di Netflix può contare su un incallito fandom che ne garantisce il successo da ben cinque stagioni, nonostante l’allontanamento dal romanzo originale e dalla serie britannica omonima. La piattaforma di streaming deve molto a questo show, che, rientrando tra le prime produzioni autonome, ha fatto conoscere al di fuori dei confini statunitensi il servizio in abbonamento che ha cambiato il nostro modo di intendere la TV. Tale fama è principalmente dovuta alla perfetta commistione di elementi che caratterizza questo political drama, che ci restituisce un’immagine smaliziata dei meccanismi istituzionali: lo spietato pragmatismo machiavelliano di Frank e Claire Underwood e la loro sfrenata ambizione e sete di potere fanno da sfondo a una politica fatta di doppiogiochismo e sottili manipolazioni che nemmeno nelle peggiori riunioni del gruppo Bilderberg.

Atmosfere hobbesiane raccontate nelle altalenanti stagioni che vedono spiccare le interpretazioni eccellenti del già citato Spacey e Robin Wright, entrambi vincitori di un Golden Globe, rispettivamente nel 2015 e nel 2014 (oltre a un’invidiabile collezione di nomination e vittorie agli Emmy che la serie ha raccattato in questi anni). Tra i produttori, oltre ai due protagonisti, risalta il nome di David Fincher, anche regista del pilot, che ha trasposto sul piccolo schermo la qualità cinematografica autoriale, altra garanzia di successo per la serie nonostante qualche passo falso.

Che negli States la politica sia spesso in connubio con le grandi epopee familiari lo dimostra anche la storyline di Robert McCallisterKitty Walker in Brothers & Sistersacclamato show dell’ABC del 2006 andato in onda per cinque stagioni. All’interno della serie, focalizzata sulle vicende della famiglia Walker alla morte del patriarca, si snoda la vicenda politica di McCallister e la contemporanea relazione con Kitty, proponendoci una prospettiva del tutto opposta rispetto a quella di House of Cards: nonostante un segreto di non poco conto, Robert è strettamente legato ai suoi principi e alla fedeltà al Partito Repubblicano, tanto da rischiare il conflitto in più occasioni con Kitty, che ne auspicava una flessibilità maggiore. I rapporti con la famiglia Walker forniscono anche l’occasione per mettere in evidenza una certa ipocrisia riguardo a determinati argomenti (ad esempio le unioni gay) da parte di Robert, il quale, pur toccato da vicino, preferisce accettare la linea del partito piuttosto che spendersi per la sua opinione.

Il corto circuito tra vita pubblica e vita privata non risparmia neanche a qualche meridiano di distanza ed è alla base dell’altro capolavoro politico di casa Netflix: The Crown. Arrivato alla sua seconda stagione (che ne ha confermato la qualità narrativa e formale), lo show narra le vicissitudine della regina Elisabetta II focalizzandosi principalmente sull’aspetto privato ma senza sacrificare il contesto storico, che spesso risalta in controluce per dare maggior spessore agli eventi della famiglia reale. I sontuosi ambienti della corona britannica incorniciano una narrazione inevitabilmente lenta, che cerca di svincolarsi dalle formalità del protocollo per abbracciare una dimensione più libera ma che non può esplodere al di fuori della pesanti mura drappeggiate. Sullo sfondo la fine della Seconda Guerra Mondiale, un Paese nettamente ridimensionato che deve fare i conti con un ammodernamento delle istituzioni che non leda la tradizione monarchica, l’avvicendarsi di primi ministri ansiosi di non sminuire il proprio ruolo rispetto alla Corona.

Il grande favorito per le nostre primarie televisive resta però The West Wing, il maestoso political drama della NBC, vincitore di tre Golden Globe e ventisei (!) Emmy, creato da Aaron Sorkin. Nell’arco delle sue sette stagioni (1999-2006) la serie racconta i due fittizi mandati del Presidente democratico degli Stati Uniti Jed Bartlet e del suo staff, impegnati a risolvere i più disparati problemi di politica interna ed estera e contemporaneamente alcuni scandali personali. La forza dello show, oltre che nell’interpretazione dei protagonisti (Martin Sheen su tutti) e nella ricostruzione dell’atmosfera e del contesto presidenziale, risiede nella scrittura di Sorkin (autore fino alla quarta stagione), capace di rendere con realismo le reazioni umane e al contempo le decisioni politiche dei personaggi. Il tutto con una resa formale che ha fatto scuola, introducendo il walk and talkl’inseguimento dei protagonisti da parte della telecamera mentre si spostano da una zona all’altra della Casa Bianca discutendo del tema del giorno. The West Wing ha inoltre avuto il merito di affrontare alcuni dei più scottanti temi attuali (terrorismo, fuga di notizie, scandali sessuali) ponendoli sempre in un’ottica che ha attratto l’interesse sia dei democratici che dei repubblicani (attirati dal realismo della discussione in atto). Questo punto di forza Sorkin è stato capace di traslarlo anche in The Newsroomun’altra sua perla seriale che, pur ambientata in una redazione giornalistica, intreccia necessariamente l’ambito politico (il protagonista è un repubblicano deluso dalla deriva del partito).

Con un ritmo nettamente più veloce, caratterizzante la maggior parte dei procedurali a firma Shonda RhimesScandal rappresenta un modo più leggero ma anche più accattivante di narrare la politica americana. In sette stagioni la protagonista Olivia Pope e la sua agenzia per la gestione delle crisi si troveranno invischiati nella risoluzione di tentati omicidi nei confronti del Presidente, scandali amorosi, tradimenti e doppiogioco il tutto alternando una visione melodrammatica a un’altra thriller, con la costruzione della tensione e la focalizzazione sulle emozioni dei protagonisti tipici di Shondaland.

La politica però non è fatta solo di drammi e una serie in particolare è stata capace di recuperare il motto castigat ridendo mores

Sette stagioni sono anche l’orizzonte narrativo di Veepl’unica comedy tra i nostri candidati alla primarie televisive. La serie della HBO segue quella che inizialmente è la vice-presidente Selina Meyer (interpretata da Julia Louis-Dreyfus) nelle sue vicissitudini con la presidenza e col suo staff, senza ovviamente dimenticare la dimensione privata della sua vita: il ritmo veloce e l’acume della satira ne hanno garantito il successo, tanto da portare lo show a vincere ben dodici Emmy. Marginalmente, e fuori concorso, segnaliamo anche 24la serie Fox incentrata sulle frenetiche giornate di Jack Bauer che, tra le prime, ipotizzò un POTUS di colore e cercò di ritagliare, all’interno della sua narrazione prevalentemente spionistica e action, un piccolo spazio (anche piuttosto superficiale) per la dimensione politica.

Dulcis in fundo, anche il made in Italy ha provato qualche esperimento di serie politica (da un’idea di Stefano Accorsi), confezionando l’eccellente 1992 e il suo ottimo seguito 1993Due mirabili esempi di un periodo estremamente complesso del nostro Paese, in cui interessi economici, politici e criminali si intersecano mentre la Seconda Repubblica è pronta a soppiantare la Prima sulle macerie di atroci stragi (e no, non parliamo della dizione di Tea Falco). Un’ottima produzione che fa il paio con lo splendido La meglio gioventùaffresco di un Paese che cambia drasticamente e di una classe politica non sempre all’altezza della romanzata realtà televisiva.