SpecialiLa rivoluzione Netflix

Ricordate quando bisognava aspettare una settimana per risolvere il cliffhanger di un episodio? Vi raccontiamo come Netflix sta cambiando il nostro modo di intendere la televisione. Senza la televisione.

La televisione è un medium che cambia molto in fretta, forse anche più rapidamente degli altri, adattandosi a nuovi metodi di fruizione e produzione e, contemporaneamente, generandone altri da sé. Netflix in questo processo di rinnovamento mediatico ha giocato (e sta giocando) un ruolo unico e di fondamentale importanza nella storia delle serie TV, arrivando a modificare significativamente la percezione dei prodotti seriali.

In principio furono la TV via cavo e il DVD

Per avere un’idea del cambiamento epocale (a livello mediatico) a cui stiamo assistendo, bisogna per prima cosa tratteggiare la situazione della TV prima dell’avvento dello streaming online legalizzato, perché le rivoluzioni non nascono da un giorno all’altro. Fondamentalmente, almeno per il nostro Paese, il polo di riferimento televisivo-seriale è stato sempre quello statunitense, da cui attingevamo non solo prodotti (sitcom, soap e procedurali) ma modelli veri e propri da ricalcare. La TV commerciale degli States puntava principalmente su prodotti “senza scadenza”, che potessero durare il più a lungo possibile così da far scattare il meccanismo della syndicationTale strumento, in estrema sintesi, (adottato anche in Italia da canali come 7 Gold, Europa 7 e Odeon TV) permette a una rete nazionale di cedere a un canale locale i diritti per la replica dei suoi programmi; generalmente negli USA il minimo di episodi perché si possa contrattare una sindacazione è di 88 episodi, corrispondenti, nella maggior parte delle volte, a 4 stagioni da 22 episodi.

Le sitcom, i procedurali e le soap esprimevano al meglio questo modo di concepire la serialità televisiva, essendo potenzialmente prodotti infiniti.

Oltre ai diritti generati dalla syndication, le grandi emittenti potevano contare anche sugli introiti derivanti dalla pubblicità, l’altro polo di riferimento per quanto riguarda le entrate, vincolate così alla lunga permanenza degli spettatori. L’aumento dei canali televisivi ha però comportato una spartizione del pubblico e i grandi network, per adattarsi, hanno puntato sulla fidelizzazione dello spettatore piuttosto che sul tentativo di attrarne di nuovi. Ciò ha lasciato ampio margine di manovra alla televisione via cavo, che si è via via caratterizzata per la maggiore flessibilità produttiva e per un’attenzione più mirata alla qualità delle serie (pensiamo ad HBO, AMC [prima di The Walking Dead], FX); il motivo è, ovviamente, di natura prettamente economica: contrariamente ai network generalisti, queste nuove emittenti vivono anzitutto di abbonamenti, quindi di capacità attrattiva di nuovi spettatori, prima ancora che di introiti pubblicitari.

È quanto succede ad esempio, con i dovuti distinguo contestuali, in Italia con Sky e le reti generaliste: la prima può permettersi di imbastire produzioni di grande respiro e qualità (Gomorra, Romanzo Criminale, 1992) mentre gli altri puntano a serializzazioni più durature (Don Matteo 11!). Ciò ha avuto un importante riflesso, oltre che sulla qualità, anche nella produzione stessa delle serie TV: non dovendo più puntare alla syndication, le emittenti non avevano più bisogno di allungare a sproposito le stagioni, ma era anzi più conveniente ridurre di molto le puntate. Questo primo mutamento nella serialità è stato il primo ad essere ripreso da Netflix, che proprio in quanto servizio in abbonamento ha adottato il modello e la filosofia delle TV via cavo: non si tratta solo di attrarre nuovi spettatori, ma di farlo puntando a serie che non siano potenzialmente infinite. In quest’ottica appare meno irrazionale la scelta di Netflix di abbandonare al suo destino una serie come Sense8dispendiosa e meno capace di attrarre nuovi abbonati al di fuori della (pur corposa) nicchia di appassionati, rispetto ad esempio a uno show ad alto potenziale attrattivo e decisamente più economico come 13 Reasons Why.

L’altro grande momento di svolta che ha condizionato Netflix è l’avvento del DVD e l’esplosione delle serie TV come oggetto privato. La possibilità di possedere il proprio feticcio televisivo ha cambiato nettamente il modo di intendere e creare i prodotti seriali: in primo luogo la visione passa dalla ritualità collettiva del medium, scandita da precisi orari e norme, alla personificazione della fruizione, che diventa privata e gestita secondo una cronologia autonoma. In secondo luogo, gli show cominciano ad essere pensati non solo più per la televisione, ma proprio per l’home watching, puntando su contenuti accessibili solo a chi comprerà il DVD o a easter eggs facilmente rilevabili grazie alla personificazione della visione (penso, ad esempio, ai molteplici contenuti nascosti nelle scene di Lost o al corto The New Man in Charge concepito proprio extra-televisivamente come “aggiunta” al finale della serie di Lindelof e Cuse).

Lo spettatore al centro

Netflix ha saputo raccogliere dai due momenti sopra descritti le caratteristiche fondamentali per rispondere alle esigenze degli spettatori odierni: un’offerta che non punti a una serializzazione eccessiva e che cerchi nella minore quantità di episodi la maggiore qualità (pur non sempre riuscendoci), offerta basata sulla capacità di attrarre sempre nuovi abbonati, richiamati non solo dalla bontà dei prodotti ma anche dalla possibilità di personificare al massimo la propria fruizione (in alcuni casi è possibile addirittura scegliere il finale di uno show). Ma cosa cambia nella realtà dei fatti questo nuovo modo di intendere le serie TV? Anzitutto il modello di serie breve sta prendendo sempre più piede, allargandosi anche alle sitcom, genere di norma escluso da questa tipologia. In secundis cambia completamente il tempo dello schermo, cioè quella serie di norme che prima erano dettate dal palinsesto televisivo e che adesso ognuno regola in base alle proprie necessità: certo, una volta finita la seconda stagione di Stranger Things devo comunque aspettare almeno un anno per la terza, ma rispetto a qualche anno fa la fruizione di quella stessa stagione è stata diversa.

24così come LostAlias, hanno costruito sul cliffhanger episodico parte della propria fortuna: la pausa che intercorreva tra una puntata e l’altra serviva a strutturare e solidificare l’esperienza e la percezione della serie; adesso un colpo di scena in chiusura di puntata può essere risolto nell’arco di pochi minuti facendo caricare l’episodio successivo: quel cliffhanger ha ancora una forte carica narrativa che mi spinge a fagocitare immediatamente ciò che viene dopo, ma la sua funzione viene adesso caricata del tutto sul colpo di scena di fine stagione, quello che realmente presenta uno stacco temporale non manipolabile. Ciò ha conseguenze anche sugli episodi filler, inconcepibili in un sistema così sintetico e che creano qualche perplessità nel momento in cui si presentano: basti pensare al settimo episodio della seconda stagione di Stranger Things, che normalmente non verrebbe neanche giudicato riempitivo, ma che in questo contesto ne assume l’identità.

Un altro grande cambiamento, forse il più controverso, riguarda le produzioni locali: se da una parte assistiamo a sempre più interessanti proposte da Paesi che altrimenti non avremmo mai televisivamente considerato (DarkLa Casa de Papel, Versailles, il nostro Suburra), dall’altro assistiamo a una forma di omologazione che rischia di tagliare fuori certe caratteristiche creative specifiche di ogni nazione.

Fatto salvo che Netflix non è, adesso, l’unico ad agire in questo senso (Hulu Amazon Prime Video, ad esempio), di sicuro è stato il primo a dare questa svolta netta nel sistema seriale, tanto che permangono alcuni dubbi sul fatto che si possa ancora parlare di serie TV quando la TV adesso potrebbe anche non esserci. A margine e in conclusione, una riflessione merita il ciclo di reciproche influenze che cinema e serie hanno in atto da diversi anni (e che Netflix ha in qualche modo sintetizzato, gettandosi anche nella produzione di lungometraggi). Se dapprima è stata la settima arte a condizionare formalmente e contenutisticamente il piccolo schermo, la tendenza odierna sembra passare per la strada opposta, con una progressiva serializzazione dei film (organizzati per Fasi/stagioni), sempre più intermediali e un riconoscimento esponenzialmente più significativo dei produttori (meccanismo mutuato dalle dinamiche televisive).