Già solo per la prima, incredibile stagione, Prison Break meriterebbe un posto nel cuore di ogni buon freak. Con qualche difetto si salvano dignitosamente anche la seconda stagione e parte della terza; la quarta, invece, è il punto più basso della serie, introducendo forzature alla sospensione dell’incredulità che perdureranno anche nella quinta stagione, arrivata solo di recente. Può piacere ai patiti dell’azione, meno a quanti cercano una logica e una coerenza nell’intreccio.
Otto anni dopo quello che credevamo fosse il Series Finale, Lincoln riceve da T-Bag degli indizi che farebbero credere che Michael, da tutti creduto morto proprio durante l’ultima evasione, sarebbe invece ancora vivo e si troverebbe imprigionato ad Ogygia, un carcere dello Yemen, paese in cui è in corso una guerra civile.
Le due puntate conclusive di Prison Break cercano di non perdere la traccia omerica che la stagione pretendeva di seguire, ma il risultato appare monco e ricco di superficialità.
Ammantata di una mitologia greca che stona come un premio Nobel a Uomini e Donne, Prison Break decostruisce gli standard narrativi in favore di un ritmo totalmente insensato e confusionario, regalandoci l'ennesimo parterre di personaggi dalla psicologia profonda come una sogliola.
Con il consueto spessore di un foglio A4, Prison Break prova a tratteggiare i cambiamenti di personalità di Michael, dimenticando però di far evolvere contestualmente anche il resto del gruppo, statico come un vecchio di fronte a un cantiere.
Rifacendosi al proprio passato, Prison Break punta ad accelerare il ritmo della narrazione ricorrendo al tipico espediente dell'evasione. Un revival quasi del tutto riuscito ma che suscita qualche perplessità riguardo al futuro e alla psicologia dei personaggi.
Sull'onda del riciclo delle idee (non sempre buone), torna Prison Break, con una quinta stagione che potrebbe aver assestato il suo primo passo falso già nelle première. Dobbiamo tatuare sul corpo degli autori la strada per uscire dal cul de sac in cui si sono infilati?
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