MindhunterSeason 1 Recap: La logica del Male

Season Recap Una caccia ai serial killer diventa il pretesto per addentrarsi nella loro labirintica mente cercando di coglierne la logica interna. Mindhunter racconta quanto è necessario sacrificare di sé stessi per capire un assassino, col rischio di trovarsi faccia a faccia col Male.

8.7

Il pilot di Mindhunter ci aveva già colpito per la profondità e l’accuratezza che traspiravano anche nei suoi momenti più lenti, dove l’attenzione per il dettaglio, formale e contenutistico, risaltava con maestria. Il resto della prima stagione non è da meno, regalandoci un ottimo prodotto seriale che aggiunge un tassello all’ormai vasto mosaico della qualità televisiva.

Il fascino del male

I nove episodi, successivi alla première, che compongono questa stagione (il cui seguito è già confermato) sviscerano le reali vicende che hanno portato Holden Ford Bill Tench, agenti dell’FBI nel Dipartimento di Scienze Comportamentali, a dare autorevolezza scientifica alla profilazione criminale all’interno del bureau. Per farlo i due federali non solo dovranno lottare contro la burocrazia interna che rischia di ingabbiare il loro spirito di iniziativa, ma anche mediare i conflitti metodologici che cominciano a sorgere nel momento di intervistare degli assassini seriali per tracciare modelli di comportamento criminale. La presenza dell’ambiziosa accademica Wendy Carr all’interno del gruppo non facilita la situazione, giacché, nonostante offra un prezioso contributo intellettuale, la donna è al contempo un limite alla tracotanza sempre più crescente del giovane Ford.

La svolta nella narrazione arriva indubbiamente con l’entrata in scena dei serial killer, già nel secondo episodio. Le interviste con gli assassini sono il punto forte della serie, che infatti le centellina durante l’arco degli episodi, alternando a questo aspetto, che nell’ottica dei protagonisti rappresenta la parte teorica, un segmento pratico, articolato nei vari casi che i due federali riescono a risolvere grazie a quanto stanno studiando. L’evoluzione della teoria va per gradi, e ogni intervista rivela un importante pezzo del misterioso puzzle della mente criminale, dal sesso, alla famiglia fino al narcisismo. Il bilanciamento tra l’aspetto pratico e teorico è ben calibrato, non appesantendo la narrazione con più di due episodi per caso. Fa eccezione uno dei misteri più criptici della stagione, il preside solletichino, il cui scopo è però mostrare quanto in là si stia spingendo Holden sia nella considerazione di sé stesso che nelle potenzialità del loro studio (toccando peraltro un tema scottante e attuale come quello della pedofilia).

Il caso di Roger Wade diventa così emblematico e profetico degli eventi che porteranno al finale di stagione, quando Holden, visibilmente – già nel vestiario – cambiato rispetto all’ambizioso ragazzo visto del pilot, si trova faccia a faccia col Male che pensava di poter contenere e comprendere, rendendosi piuttosto conto di aver lasciato che questo albergasse e crescesse in lui durante i mesi a contatto con killer e maniaci, tanto da compromettere il lavoro svolto col team. Il controllo, che nelle interviste con gli assassini era sempre appartenuto a Ford anche nei momenti in cui si trovava a mettersi sullo stesso piano dei criminali, si sgretola man mano che la hybris del giovane rafforza l’illusione di poter già comprendere le profondità in cui si è appena affacciato; egli diventa così succube, fino al punto di rottura. Il ribaltamento dei ruoli è manifesto nel colloquio finale con gli Affari Interni, dove Ford passa da intervistatore a intervistato. Pur disponendo di mezzi e conoscenze nuove, Holden ha nutrito col suo studio la convinzione di avere tutte le risposte ma, come il poliziotto con le foto sul finale del pilot, la realtà è pronta a mostrargli che ha ancora molta strada da fare.

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The Grey Zone

Sullo sfondo un’America anni Settanta che non ha ancora assimilato le reazioni del Sessantotto e soprattutto fatica ad accettare la rivoluzione sessuale; machismo e patriarcato sono ancora imperanti, dalle piccole cittadine fino alle forme striscianti assunte anche nei piani alti dell’FBI: un humus troppo fertile per non scatenare la sessualità distorta dei serial killer. In questo quadro trovano maggior risalto le forti figure femminili protagoniste della serie, dalla travagliata Wendy di Anna Torv alla Debbie di Hannah Gross, fino a Nancy Tench, la moglie di Bill: ognuna di loro viene tratteggiata con personalità spiccanti, lontano dall’anonimato dei personaggi secondari. Un ruolo, il loro, che assume ancora più importanza quando inquadrato nell’orizzonte familiare, che insieme al sesso rappresenta, l’altro grande elemento rilevante nella vita dei serial killer: così il sesto episodio diventa un pretesto per approfondire l’aspetto familiare dei tre protagonisti del gruppo di ricerca, mentre contemporaneamente il fronte criminale rivelava l’influenza determinante dei genitori nella deviazione sociopatica e assassina.

La sigla diventa emblematica dell’analisi portata avanti dal team Ford, alternando a un normale procedimento di registrazione, squarci di insanità quasi subliminali, crepe nella mente criminale che lasciano che l’anormale penetri nel quotidiano. Vi è una logica in questa pazzia, una ratio riconducibile a modelli che è possibile standardizzare, rendere normali, forse prevedibili. Una logica che è quanto mai necessario comprendere in quegli anni, giacché il fenomeno dell’omicidio seriale oltre che trasversale è anche diffuso, come urlano le gigantesche localizzazioni dei crimini. E su un assassino in particolare si concentrano i diversi cold open, mostrandoci con un climax ascendente l’apparente normalità da una parte e dall’altra l’inquietante sentore di qualcosa di marcio, che viene confermato solo alla fine dell’ultimo episodio, rompendo lo schema fisso del pre-sigla (ancora una volta, spezzando la quotidianità).

David Fincher ci regala un viaggio nella mente degli assassini che è però allo stesso momento un’indagine sul protagonista, facendoci dubitare di lui, della sua empatia e dei suoi impulsi, dopo averne per dieci episodi fatto la colonna portante della sua personalità. Mindhunter nella sua linearità non è una serie semplice e, come già mostrato nel pilot, non ambisce a tenere alta la tensione per tutto il minutaggio, ma si prende i suoi tempi per approfondire quella zona grigia in cui si muovono tutti i protagonisti dello sceneggiato. Un ottimo prodotto che alla buona scrittura abbina una colonna sonora azzeccatissima (stiamo ancora cantando i Talking Heads), la fotografia e la regia di livello, con inquadrature a prospettiva centrale che richiamano AndersonKubrick (o il più recente Legion, per rimanere sul piccolo schermo).

Porcamiseria
  • 9/10
    Storia - 9/10
  • 9/10
    Tecnica - 9/10
  • 8/10
    Emozione - 8/10
8.7/10

In Breve

Mindhunter è una serie che si prende i suoi tempi per approfondire non solo la mente criminale ma anche quella che cerca di comprenderla. Il tutto in una pericolosissima America anni Settanta resa perfettamente da un’ottima regia, fotografia e colonna sonora.

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Porcamiseria

8.7

Mindhunter è una serie che si prende i suoi tempi per approfondire non solo la mente criminale ma anche quella che cerca di comprenderla. Il tutto in una pericolosissima America anni Settanta resa perfettamente da un'ottima regia, fotografia e colonna sonora.

Storia 9 Tecnica 9 Emozione 8
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