FargoSeason 3 Recap: Guerra fredda in Minnesota

Season Recap Fargo non è mai stato così freddo: gli innevati paesaggi del Midwest americano si confondono con le gelide atmosfere sovietiche, in una ricerca esistenziale che Noah Hawley maschera da thriller. Due fratelli dai destini opposti si scontrano con un nemico comune tanto sgradevole quanto misterioso, una faida sanguinosa e inaspettatamente introspettiva.

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Il principio della scelta ristretta, oltre che il titolo del secondo episodio di Fargo è una regola non matematica che viene applicata al gioco del Bridge, e afferma che se un giocatore gioca una certa carta la probabilità che lo stesso abbia una carta equivalente diminuisce, in pratica fornisce un’indicazione sulle possibilità dell’avversario analizzandone le mosse. Se Emmit Stussy si fosse messo ad analizzare la mosse di Nikky Swango e di suo fratello Ray avrebbe capito quanto poco avessero da giocare, al contrario del suo vero nemico. Un assorbente interno e uno sfottò scritto col rossetto danno il La ad una faida più infantile di quanto ci si aspettasse dal pilot: i 4, se comprendiamo il fido Sy Feltz, giocano a farsi i dispetti come bambini annoiati, e così un “dispositivo femminile” e un dito medio diventano le armi utilizzate per una guerra che ha come oggetto e motivo della contesa, ricordiamolo, un francobollo. Il lato bambinesco dello scontro non disturba, si intuisce da subito come rappresenti la sezione narrativa a cui, più delle altre, è affidato il compito di alleggerire il mood generale, con la giusta dose di humor nero e stile grottesco ormai immancabilmente associati al nome “Fargo”.

Adorabile e quantomai azzeccato è l’avvio del terzo episodio, che utilizza le parole e la musica di Pierino e il lupo, in un prolungato parallelismo narrato da Billy Bob Thornton (il terribile Lorne Malvo della prima stagione) che evidenzia come la fiaba Fargo voglia dare da subito ai suoi personaggi caratterizzazioni sempre più forti e distinte: così la frustrazione di una Gloria Burgle che si vede chiudere tutte le porte – reali e metaforiche – si contrappone a quella di Ray descritto come eterno perdente; c’è poi l’aiutante chiacchierone e simpatico degno di ogni storia classica, l’agente Winnie Lopez, e ci sono i cattivi, che quando l’azione inizia a carburare si travestono da animali veri e propri, in un gioco metatestuale tanto lezioso quanto efficace. Parlando di personaggi, memorabile è lo strambo e invadente V.M. Varga, che dal quarto episodio stacca in volata i cattivi delle stagioni passate facendo leva, oltre che sull’immancabile retorica infarcita di riferimenti colti e aneddoti storici, su sensazioni puramente “fisiche”, visivamente sgradevoli, come l’ingozzarsi per poi vomitare tutto o il torturarsi i denti con un punteruolo; un approccio animalesco, che si sposa con l’aspetto sardonico e sprezzante, degno, per l’appunto, del peggior lupo.

Che Fargo sia una serie del tutto non-logica è chiaro a tutti. Chi si aspetta una certa razionalità nell’indagine, nei comportamenti di personaggi, nella struttura stessa degli episodi, può solo rimanere deluso dall’incertezza e dal relativismo che guidano la serie. Fargo riprende e rielabora dichiaratamente il tema della ricerca esistenziale affrontato dai fratelli Coen in più o meno tutta la loro filmografia, e allo stesso modo dei due cineasti, Noah Hawley, creatore della serie, si gioca la partita su un campo metafisico. La terza stagione è quella che più insiste su quest’impostazione, infarcendo i dialoghi, o meglio i monologhi, di riferimenti storico-mistici, e rendendo spesso il “senso compiuto” un miraggio vero e proprio. La terza puntata della terza stagione ci tiene a non deludere le aspettative in questo senso, e quello che ne viene fuori è l’episodio più anomalo dell’intera serie. Non può essere che A sia B e che A non sia B nello stesso tempo, così si potrebbe sintetizzare il principio di non contraddizione, titolo dell’episodio e uno dei fondamenti del pensiero logico, pensiero che di certo non padroneggia Gloria Burgle, che rappresenta l’immancabile agente impotente e sopraffatto dal mondo ma determinato a fare giustizia, o meglio a scoprire la verità.

Fargo non smette di convincere grazie ad una qualità stilistica ormai riconoscibile e ad un approccio narrativo quasi letterario.

Finiamo (o meglio, iniziamo) negli anni ’70, con un ritorno inaspettato alla seconda stagione e ai suoi split screen. Non si ha tempo per abituarsi al cambio di registro che ne parte un’altro, in 2d: Minsky l’androide vuole solo aiutare, i suoi viaggi spaziali rappresentano una metafora della confusa ricerca del bene da parte di Gloria, ricerca senza speranze già in partenza. Una soleggiata Los Angeles accoglie Gloria inbottigliandola nel traffico come una qualsiasi aspirante Emma Stone in La La Land; l’assurdo raduno di Babbo Natale ci ricorda quanto siano lontane le fredde atmosfere del North Dakota, ora che tra palme e occhiali da sole Gloria si ritrova a fantasticare sul senso della sua indagine, del suo divorzio dall’ora-gay ex, e di chissà cos’altro. Il paradosso del gatto di Schrödinger si riflette nella scatola che si chiude da sola che Gloria trova nella sua stanza, e insieme alle tristi avventure di Minsky fa di questo terzo episodio il più semioticamente introspettivo e logicamente contraddittorio dell’intera serie.

Il secondo blocco metafisico lo incontriamo nell’ottavo episodio: “Who Rules the Land of Denial?” parte dall’accelerazione data dal finale della puntata precedente e mette in scena una fuga lenta e spietata, che alterna tensione e azione, sangue e strategia. In un bowling che ci ricorda in modo fin troppo automatico quello de Il Grande Lebowsky, arriva insanguinata Nikky – allo stesso modo in cui l’impolverata Beatrix Kiddow chiedeva un bicchiere d’acqua sedendosi compostamente dopo essersi dissepolta. L’incontro con Paul Marrane, l’enigmatico personaggio di cui Gloria aveva già fatto conoscenza sul volo per LA, ci riporta con la testa tra le nuvole dopo la concretezza dell’azione. Marrane rappresenta, come il nome e l’onnipresenza suggeriscono, l’ebreo errante, e narrativamente costituisce un vero e proprio deus ex machina. Hawley non ci pensa neanche lontanamente a integrarlo: appare, risolve, sparisce, come nella splendida scena, nello stesso bowling, in cui il bravo Yuri è vittima del proprio passato, che riappare in veste quasi mitologica davanti ai suoi occhi e a quelli dello spettatore, in una ideale soggettiva tanto spiazzante quanto misteriosa. I riferimenti alla storia sovietica sono molteplici, a volte dichiarati, altre nascosti, dalla casa dallo scopo speciale del quarto episodio (Casa Ipat’ev, dove venne uccisa la famiglia Romanov e tutta la sua servitù a seguito della rivoluzione bolscevica) all’icona di Stalin accanto alla postazione di ricerca di Varga. Siamo in Minnesota, ma non siamo mai stati così vicini alla Siberia.

Fargo non è solo dialoghi sconclusionati e assurdità sparse, la costruzione del racconto è magistrale, e sa equilibrare perfettamente i momenti di pausa con quelli ad alta tensione. Le scene memorabili sono tante, da quella della morte per condizionatore del pilot, a quella della tazza “World’s best dad” di Sy. Le chicche sono tante, come il piccolo frangente di Black Mirror che vede l’avvocato di Emmit mettersi a indagare sul nuovo “investitore” misterioso non avendo probabilmente mai usato Google: un click troppo frettoloso e dalla risata si passa al terrore puro. Ben calibrato, e concentrato nella seconda metà della stagione, è il livello di spettacolarità; se la scena del ribaltamento del furgone è chiara debitrice dei ralenti rotanti di Inception, l’incipit dell’episodio successivo è un ancora più chiaro tributo al mai abbastanza declamato L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford, da cui Hawley decide di attingere a piene mani per la sequenza dell’assalto al treno. I riferimenti sono anche interni, il muto Mr. Wrench della prima stagione riappare inaspettatamente al fianco di Nikki e non solo prende parte all’azione in modo attivo, ma addirittura la chiude. David Thewlis dà un contributo mostruoso alla caratterizzazione di un personaggio già ben scritto, così come anche Michael Stuhlbarg nel ruolo di Sy Feltz; Carrie Coon funziona meglio del Patrick Wilson della seconda stagione ma peggio di Allison Tolman della prima. Ewan McGregor si sdoppia in modo efficace ma senza suscitare particolare entusiasmo, un po’ come anche il lavoro l’affascinante Mary Elizabeth Winstead.

La regia è solida e allo stesso tempo accorta nel ritagliarsi momenti di grande libertà visiva, l’attenzione alla composizione dell’immagine è maniacale e spesso fin troppo artificiosa, soprattutto nell’ormai inflazionata simmetria. La fotografia è fumosa e desaturata, quasi a far sembrare più realistica possibile, annullando la vividità culturalmente associata al fantastico, una vicenda che la sceneggiatura non si preoccupa di rendere tale. L’invasione degli uffici di Emmit, esempio tra le decine possibili, inizia con un battito di mani a piani di distanza: tutto è assurdo e credibile allo stesso tempo, il miracolo della finta storia vera, dichiarato nell’incipit di ogni episodio, si compie sotto gli occhi dello spettatore quasi senza essere notato. La terza stagione conferma la capacità autoriale di Hawley, sempre più cinematografico nel suo fare TV, nello sceglierne i tempi e i modi narrativi, e conferma la serie come una must dell’universo televisivo degli anni 10, che supera definitivamente l’idea di thriller investigativo grazie ad una qualità stilistica ormai riconoscibile e ad un approccio alla narrazione quasi letterario.

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