Fargo3×01 The Law of Vacant Places

La rivalità tra i due fratelli Stussy è il punto di partenza della terza avventura di Fargo, che anche quest'anno è tornato con il suo ormai celebre carico di personaggi grotteschi e omicidi assurdi. Una premiere calibrata e solida, un'introduzione cupa che fa esplodere la tensione solo nel finale.

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Se pensi a Fargo pensi alla neve. Pensi a criminali dai modi bizzarri e a poliziotti dal cuore tenero, alle camicie di flanella e alla notte sulle highway del Midwest illuminate dai fari di una macchina in fuga. Non pensi di certo agli uffici dal mobilio austero della Germania Est della Stasi, eppure è li che si apre la terza stagione di Fargo, che decide di coglierci di sorpresa con un’interrogatorio tra l’assurdo e lo spaventoso e lasciarci sulle spine sfumando sull’ormai rassicurante “This is a true story”.

La menzognera dichiarazione che rappresenta al meglio il continuo gioco tra realtà e finzione, verosimile e incredibile, messo in scena su FX da Noah Hawley, creatore della serie e per questa premiere anche sceneggiatore e regista, che non sembra essersi distratto troppo con Legion tornando a farci trattenere il fiato come le prime due stagioni ci hanno insegnato.

“And we are not here to tell stories. We are here to tell the truth.”

Il Minnesota del 2010 è l’ambientazione scelta per questa nuova avventura, una scelta conservativa e obbligata come lo è il personaggio interpretato Carrie Coon: la premurosa ma sicura Gloria Burgle, che si ritrova a crescere un figlio da sola data l’omosessualità dell’ex-marito, un po’ il corrispettivo di Allison Tolman e (suo padre) Patrick Wilson nelle prime due stagioni per intenderci.

I gemelli sono ormai un must per Fargo, c’erano nelle prime due stagioni e ci sono qui, con un upgrade non da poco: non più personaggi secondari ma protagonisti, e soprattutto non più identici ma con due personalità ben diverse, addirittura in conflitto, e forse si tratta del primo chiaro segnale della volontà di staccarsi da una narratività fatta di macchiette e puntare su un realismo più spinto.

I fratelli Emmit e Ray Stussy sono interpretati da un Ewan McGregor finalmente sopra le righe, e quello che li separa sono fondamentalmente i soldi che ha il primo e non ha il secondo. Emmit ci viene presentato in smoking bianco con il fare da boss della mafia, salvo poi scoprire che le persone a cui tempo prima aveva chiesto un prestito sembrano essere molto più pericolose di lui; Ray invece, un agente di custodia trascurato e poco brillante, è così disperato da chiedere i soldi al fratello per pagare l’anello di fidanzamento per la bella truffatrice Nikki, un’azzeccatissima Mary Elizabeth Winstead.


Dopo una prima mezz’ora introduttiva la vicenda prende quindi il via: Ray chiede allo sbandanto Maurice di rubare l’ultimo prezioso francobollo rimasto al fratello in cambio di una fedina penale pulita, ma Maurice è il classico inetto dei film dei fratelli Coen e tutto va storto, la persona sbagliata viene uccisa e la paura inizia a circolare nei personaggi di Nikki e Ray, che con prontezza mettono in scena uno degli omicidi più iconici della serie. La regia ne sottolinea la potenza unendo al classico ralenti il punto di vista rotante dell'”arma” del delitto, riuscendo a rendere perfettamente l’idea di casualità e la suspense del momento.

A proposito di regia, sembra che Hawley non abbia perso di vista l’epicità grottesca che ne ha fatto la fortuna, puntando se possibile ancora di più l’attenzione su una fotografia cupa e fumosa, e forse meno sul montaggio: se nella seconda stagione, ambientata negli anni 70, la volontà di giocare con lo strumento visivo era chiara, con split screen ogni due per tre, qui lo stile si fa decisamente più moderno, e le uniche eccezioni alla regola sono un paio di inquadrature capovolte a ricordare allo spettatore di essere pronto a cambiare sempre prospettiva.


Le differenze col passato dunque ci sono: meno personaggi, almeno per ora, la vicenda sembra più lineare e meno frammentata nella coralità intricata che contraddistingue la serie; meno esplosività e più costruzione calibrata, segnale di una rinnovata maturità nella scrittura.

Il tema del rapporto con la tecnologia, già anticipato in alcune interviste mesi fa, poteva apparire forse scontato, ma non ci aspettavamo di certo Carrie Coon agitare le braccia per far aprire una porta automatica malfunzionante; Ray e Nikki persi nei propri smartphone in vasca da bagno invece sì, ma è presto per capire quali pieghe prenderà il tema. È presto per capire tutto in realtà, capire perché il vecchio Ennis abbia un Hugo Award in casa ad esempio. Il suo passato autoriale potrebbe essere uno di quei depistaggi che Hawley costantemente inserisce negli episodi (ricordate i simboli alieni ritrovati in casa del padre da Cristin Milioti nella scorsa stagione?) ma che contribuiscono non poco ad arricchire di fascino e mistero la serie.

Le scelte musicali in Fargo sono sempre coraggiose, a volte volutamente esagerate. Non è il caso di Prisencolinensinainciusol, che col suo gibberish anglofono rende appieno l’assurdità della sperata fortuna fatta col gioco del bridge. Adriano Celentano deve essere caro agli autori dello show, visto che lo avevano usato anche nei titoli di coda di un episodio della prima stagione.

Tra i personaggi che sembrano più “promettenti” per fomentare l’effetto domino che si è già scatenato c’è quello di V. M. Vargas, indecifrabile e inquietante portavoce di una società dai modi tutt’altro che chiari, e ottimo anche il lavoro di Michael Stuhlbarg, che di Coen ne sa qualcosa più degli altri, sul suo Sy Feltz.

Le carte sono state messe in tavola, ma siamo sicuri che qualche asso nella manica verrà fuori nei prossimi episodi, magari dei personaggi secondari che sappiano divertire con lo stile caustico del vecchio Mike Milligan, visto che il gusto notturno di questa terza stagione sembra decisamente più serioso dei precedenti.
“And we are not here to tell stories. We are here to tell the truth” afferma l’ufficiale tedesco, anticipando il “This is a true story” che però svanisce nella neve di una fotografia che chissà perché sta li, lasciando ben visibile la parola “story”e contraddicendo quindi il suo stesso messaggio. D’altronde Fargo è questo, una storia che si finge verità, coprendo le sue tracce nella neve e nel sangue.

4.5

 

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