Emerald CitySeason 1: Sangue e Polvere nel Regno di Oz

Tra sorprendenti scenografie e atmosfere oscure, il talento visionario di Tarsem trova in Emerald City terreno fertile su cui costruire uno dei più attesi riadattamenti del mondo delle Serie Tv.

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Quando ci si misura con la mitologia cinematografica il rischio di partorire un abominio senza capo né coda è dietro l’angolo, basti pensare a Maleficent (stiamo ancora bestemmiando); lo stesso problema si pone nell’affrontare un riadattamento in serie TV di un’opera letteraria, o peggio quando si tenta maldestramente di fondere più libri con storyline o tematiche condivise, come Alice in Wonderland di Burton.

Emerald City è il frutto della fusione tra il film “Il mago di Oz” con Judy Garland, datato 1939, e degli avvenimenti narrati nei 14 libri che L. Frank Baum ambientò nel mondo di Oz. Con una mitologia vastissima dove è facile fare cazzate, questa serie riesce dove altri progetti hanno fallito: creare qualcosa di connesso alla trama nativa ma espandendone i confini e i personaggi per creare delle sottotrame originali. È impossibile parlare della trama di Emerald City senza fare spoiler sul modo in cui i personaggi vengono riproposti, buona parte del fascino della serie sta proprio in questo, con un risultato fascinoso che ricorda più l’umanità goth di Penny Dreadful che le vicende da soap opera di Once Upon a Time.

L’inizio della storia è quello che tutti noi conosciamo: Dorothy, una ventenne di Lukas, Kansas, che vive con gli zii, viene risucchiata da un tornado e nel momento stesso in cui atterra sul suolo incantato uccide accidentalmente la strega dell’Est. In Emerald City, tuttavia, Dorothy è un’infermiera dei giorni nostri che da poco viene a conoscenza del fatto che la vera madre si è trasferita in città e vuole riallacciare i rapporti con lei. Nel momento stesso in cui si rende conto che il tornado che sta per devastare Lukas potrebbe uccidere sua madre si precipita da lei per metterla in salvo, ma per una tragica sequenza di eventi la ragazza si trova in un auto della polizia, in compagnia di un pastore tedesco (Toto), e viene risucchiata dal tornado, in una sequenza che ricorda più il salto nel wormhole di Interstellar che quella originale del ’39. L’ampliamento narrativo è esperibile fin dai primi minuti del pilot ed è sicuramente uno dei due punti di forza della serie.

Piccola annotazione nerd: le famigerate scarpette rosse in cui Judy Garland zompetta gioiosa nel film originale non fanno parte del libro da cui è tratto il lungometraggio. Sono state inserite in fase di sceneggiatura e quindi sono di “proprietà” della Metro Goldwin Mayer. Essendo Emerald City una produzione NBC non si sono potute usare, ma un astuto stratagemma narrativo ha aggirato questo ostacolo trasformandole in un paio di guanti di rubino. Il secondo punto saldo della serie è sicuramente Tarsem Sigh, visionario e fortemente autoriale, che dirige tutti gli episodi. Il regista indiano non è sempre stato sinonimo di qualità; il suo Biancaneve è oggettivamente brutto e il suo ultimo lungometraggio, Selfless, è anonimo e impersonale come un servizio di cronaca al Tg. Svariate sono le voci che alcuni suoi spot siano stati cancellati dopo che, una volta ultimati, siano stati considerati “terribili”. Ringraziando il cielo, Emerald City è figlio legittimo dei suoi primi tre film (The Cell, The Fall, Immortals) di cui prende il meglio usandolo per costruire il fantastico regno di Oz.

Pochissimi gli ambienti ricreati in studio, la città di smeraldo è ambientata nelle architetture gaudiniane di Barcellona, soprattutto il Park Guell e le invenzioni dell’architetto catalano vengono rimaneggiate con cura e dovizia per creare un ambiente che possa sembrare realistico e logorato dal tempo. Una realtà che ha perso il contatto con la magia che un tempo era ovunque, di cui rimane uno sbiadito ricordo. Perché è proprio questo il vero fulcro di Emerald city: la distruzione della magia su cui si fonda(va?) Oz. Tarsem dà una visione polverosa ed estremamente realistica di questo regno parallelo, pescando a piene mani dalle aspre colline andaluse su cui traccia il sentiero di mattoni gialli – in realtà polvere di oppio – che porterà Dorothy alla città di smeraldo. Il costante coesistere di stili architettonici spagnoli, indiani, siciliani, giapponesi, turchi che nella realtà sarebbe impossibile, e rende meravigliosamente realistico il mondo impossibile in cui si svolgono i fatti narrati. Ritornano i grandi classici di Tarsem che ne hanno definito una cifra stilistica riconoscibile, ritroviamo il colosseo quadrato dell’Eur, i giardini di marmo circolari di Immortals, il citazionismo religioso spinto (per lo spaventapasseri viene trovato crocifisso e nell’ultimo episodio si scomoda San Bartolomeo, scuoiato vivo), i ralenti estremi, l’esotismo immaginario e favolistico e le simmetrie perfette e vertiginose che hanno più una dimensione mentale che terrena. C’è da scommettere che nella seconda stagione finiranno a girare alla grande moschea di Cordoba, dato che sembra essere stata costruita per essere filmata da Tarsem.

Il cast dei protagonisti vanta numerosi semi-sconosciuti, fatta eccezione per Joely Richardson che presta volto e glacialità a Glinda, la strega cardinale del Nord, ma soprattutto Vincent d’Onofrio, palla di lardo in Full Metal Jacket, che interpreta il Mago di Oz dandone un ritratto viscido, meschino e zeppo di ombre che a tratti può ricordare king Robert Baratheon del Trono di spade. Facciamo questo paragone non a caso: i primi 4 episodi servono a gettare le basi per la storia e a godere del piacere voyeuristico di scoprire chi sarà l’uomo di latta, chi il leone, come e se la strega dell’Ovest diventerà verde e cattiva. Superato il quinto e sesto episodio, che peccano di poca originalità e un filo arrancano, dal settimo la storia deflagra (letteralmente) in una deriva che ricorda da vicino le vicende del trono. Ciò non è necessariamente un male, perché è proprio lì che si comincia a godere di più, sia visivamente che emotivamente, anche se la storia si è quasi completamente scollegata da quella classica del Mago di Oz che tutti noi conosciamo. Emerald City è qualcosa di inedito, dipinto con le tinte fosche che più assomigliano a incubi rassicuranti, piuttosto che al sogno pop in technicolor a cui siamo abituati ad abbinare la parola Oz.

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