Doctor WhoSeason 10 Recap: Ritorno alle Origini

Col finale di stagione si conclude un arco narrativo rilevante per Doctor Who, che si divide tra uno sguardo al passato e uno al futuro della serie, pronta a cambiare showrunner e protagonista. Dodici episodi non sempre all'altezza che hanno proposto però più di uno spunto di interesse sulla stessa mitologia gallifreyana.

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Fin dal primo episodio di questa decima stagione di Doctor Who, l’intento degli autori (e dello showrunner Moffat) era più che evidente e dichiarato: puntare a un mix tra rifacimento e seguito, quasi un parallelo della rigenerazione narrativa del Dottore, trasposta adesso alla struttura dello show stesso. A questo riguardo erano ben più che indizi le fotografie di Susan River Song sulla scrivania universitaria di Twelve, soprattutto alla luce dello scioccante cliffhanger che chiude l’era Moffat. Purtroppo, al pari del finale, la stagione è stata molto altalenante, con qualche episodio degno di nota, ma pochi realmente significativi o d’impatto.

Partiamo da Smile, la seconda puntata, incentrata sulla versione meno simpatica e più letale del robot Emiglio, che riprende in parte atmosfere da episodi precedenti come The Beast Below The Belly of the Beast, e va a rinnovare il comparto di imperativi di Moffat (ListenBlinkBreathe, ecc.). Tra ispirazioni calatraviane per le scenografie e da Black Mirror per la narrazione, la puntata scorre piacevolmente, accennando una critica all’eccessiva semplificazione dell’attuale sistema comunicativo informale e gettando le fondamenta per uno dei temi sommessi più ricorrenti della stagione: migranti e migrazioni.

Il terzo episodio, Thin Ice, è ancora più ispirato a The Beast Below rispetto al precedente, narrando la liberazione di un mostruoso alieno prigioniero sotto il Tamigi ghiacciato. È l’occasione per gli autori di spiegare ai neofiti di Doctor Who le principali regole del T.A.R.D.I.S. (il circuito camaleonte) approfittando dell’inesperienza di Bill per i viaggi nel tempo, che spinge il Dottore ad ammettere:

It’s just time travel, don’t overthink it!

Quello che potrebbe essere uno dei mantra della serie introduce una polemica allo sbiancamento della storia, che ben si inserisce nelle recenti discussioni sul whitewashing, e offre il fianco alla critica all’etnocentrismo strisciante che ancora condiziona parte della società occidentale. C’è spazio anche per tratteggiare la difficile psiche del Dottore, le cui responsabilità nei confronti dell’universo limitano il lusso dell’indignazione.

Knock Knock, l’episodio successivo, non ha particolari meriti e ricalca il modello della casa infestata, già vista non solo in Hide ma anche in una vagonata di altri show. Con una discreta superficialità viene affrontato il rapporto genitori/figli, toccando accidentalmente la relazione di Bill con sua madre, ma al di là della bella prestazione attoriale di David Suchet nei panni dell’affittuario c’è ben poco da dire, attestando la puntata tra le più deboli della stagione.

Nettamente all’opposto il quinto episodio, Oxygen, che tra zombie spaziali, scenografie magistralmente ispirate a 2001: Odissea nello spazio e ottimi effetti speciali, confeziona una delle perle della decima stagione. Letteralmente claustrofobico, con richiami anche ad Alien Star Trek, questo capitolo, che conta i respiri come fossero moneta, porta nello spazio Marx e la sua critica al capitale, impreziosendola con un soluzioni tecniche valide e scelte narrative scioccanti (la cecità del Dottore).

A metà della stagione Moffat ha deciso di piazzare una trilogia che allargasse il comparto villain del Dottore, introducendo i Monaci come pericolosi tiranni in cerca di pianeti disposti ad accettare volontariamente il loro dispotismo. Extremis, primo capitolo del trittico, oltre al terribile accento italiano del papa e dei cardinali, chiarisce anzitutto il mistero del caveau (su cui torneremo più avanti), segna il ritorno degli occhiali sonici (a cui sembra che Moffat non voglia proprio rinunciare) e si ispira dichiaratamente ad Angeli e Demoni e a Matrix (ed è quindi, per forza di cose, debitore al mito della caverna platonico). Lo svolgimento della narrazione su tre piani (flashback, simulazione e realtà) è affascinante e ben congegnato, ma il resto della puntata scorre piuttosto lentamente.

The Pyramid at the End of the World parte con un simile gioco tra livelli, alternando il previously al present, e continua la serie di citazioni cinematografiche riprendendo suggestioni da StargateIl Dottor Stranamore Indipendence Day. Gli umani in questo caso fanno la figura degli scemi, e moltissime, illogiche scelte narrative azzoppano un episodio dal potenziale rilevante. The Lie of the Land chiude il ciclo dei Monaci, ancora una volta citando film come V per Vendetta e molti altri del filone distopico. Il finale della trilogia offre l’occasione per una critica al consenso e alle elezioni, mai così attuale come in questo momento sia per l’Inghilterra che per gli USA. E perfettamente adatta ai nostri tempi è la critica alle fake news e alla post-verità che emerge dalla trama. La finta rigenerazione del Dottore è poi una ciliegina sull’episodio, che già dal trailer aveva ingannato gli spettatori, facendogli temere un finale anzitempo delle gesta di Capaldi.

The Empress of Mars riprende la narrazione dopo la trilogia dei Monaci, ma non ha la stessa verve dei precedenti, e conferma come anacronistica la scrittura di Mark Gatiss, che per l’ennesima volta cerca di ricalcare atmosfere whovian datate e inadatte al contesto contemporaneo e alla nuova linea intrapresa dal 2005. Il riferimento ad Alpha Centauri strizza l’occhio ai fan più affezionati, ma il tema sulla convivenza pacifica è trattato superficialmente, così come il parallelo tra Iraxxa e la regina Vittoria. Alla stessa maniera, The Eaters of Light è una puntata appena sufficiente, impostata sulla figura dei romani come conquistatori feroci (forse troppo semplicisticamente) cui parallelamente fanno eco i mostri mangiatori di luce. Più di una nota stonata (non ultimo l’improbabile sacrificio del Dottore come guardiano del varco interdimensionale) appesantisce una puntata nata lenta e difficilmente interessante.

Il penultimo episodio della stagione è forse il più bello e meritevole, sia dal punto di vista tecnico (il buco nero e l’astronave), sia da quello narrativo. Word Enough and Time inizia col botto col flashforward della rigenerazione di Twelve, già ampiamente pubblicizzata. Il resto della puntata si snoda tra ottime inquadrature e commento musicale ad alti livelli (con un accenno al tema di Gallifrey), in un climax ascendente che trova l’acme nella rivelazione del Maestro e nella genesi dei Cybermen, tassello mancante nella mitologia whovian. Le alte aspettative che l’episodio spinge per il finale, lasciano però spazio a una delusione marcata nei confronti di The Doctor Falls, capitolo conclusivo della stagione.

Personaggi scollegati, scelte narrative affrettate e di convenienza (Bill che lascia Twelve nel T.A.R.D.I.S. e va via, convenientemente salvata da Heather), una lentezza inaccettabile per un finale di stagione, fanno da contorno ai pochi elementi validi della puntata: lo scontro con sé stesso del Maestro/Missy e il parallelo incontro di Twelve col primo Dottore (dopo aver gigionamente citato Ten, Eleven ma non Nine, inspiegabilmente dimenticato da Moffat, come Rory nei flashback).

Spiace che un così vasto potenziale rimanga incanalato in poche componenti, sicuramente valide, ma condizionanti in negativo aspetti che durante la stagione era stati sviluppati coerentemente. La caratterizzazione di Bill, ad esempio, è stata perfettamente gestita durante l’arco narrativo, ma sul finale si perde, e non ci permette di riconoscere in lei la medesima persona che, pur di non far morire il Dottore, accetta una tirannia aliena per la Terra. Rimane in ogni caso, al netto di questo non trascurabile epilogo, un’ottima companion, interpretata da una bravissima Pearl Mackie, capace di svecchiare il Dottore e destarlo dopo gli eventi di Clara e River Song. La sua presenza in Doctor Who ha inoltre garantito, con domande atipiche per una companion ma che ogni spettatore si è posto, spiegazioni che altrimenti sarebbero ingiustificatamente date per scontate. La presenza di Matt Lucas ha garantito una spalla comica efficiente e divertente, che ha spesso alleggerito i toni cupi o i momenti eccessivamente tristi legati all’andamento degli eventi.

Bill, con la sua spiccata autodeterminazione sessuale, ha contribuito a uno dei temi predominanti della stagione, la temibile questione gender. Si tratta in realtà di un’operazione in risposta alle polemiche che puntualmente suscita la notizia di una possibile rigenerazione femminile del Dottore. Mai come in questa stagione di Doctor Who si è cercato di evidenziare le discriminazioni sessuali a cui le donne sono sottoposte e messo in evidenza il valore del sesso femminile. Alle volte questo tema è stato fin troppo marcato, risultando fuori luogo o forzato per l’atmosfera degli episodi. Il punto più alto è stato certamente rappresentato da Missy che interpreta letteralmente il Dottore nell’undicesimo episodio. Moffat ha urlato che non è sacrilegio avere una Time Lady anziché un Time Lord, e lo ha fatto alla sua maniera, costruendo un’intera stagione su questa possibilità (tanto che il Dottore augura al misogino Maestro di John Simm un futuro di sole donne al potere).

L’altro grande tema della stagione è il cambiamento e la possibilità di redenzione, connessi reciprocamente al Dottore e a Missy. Il loro parallelo è evidente in ogni episodio, ma più ancora in Extremis, dove gli autori giocano sulla condanna di Missy facendo intendere in prima battuta che ad essere giustiziato sarà il Dottore. nemici/amici di lunghissima data che si ritrovano dapprima a scontrarsi con l’Altro da sé per poi tornare a confrontarsi con sé stessi.

Nel caso di Missy si tratta di un letale finale, che annulla ogni speranza di cambiamento per lei, letteralmente uccisa da un passato a cui non riesce più a fuggire (magistrale, si passi il termine, l’interpretazione di Simm e più ancora di Michelle Gomez, la cui morte richiama l’Ofelia di Millais). Per Twelve si tratta invece di un confronto, ovviamente, pacifico, un ritorno alle origini del personaggio, necessario a maturare la consapevolezza della necessità del dolore che ogni cambiamento porta con sé quando comporta sacrifici.

Per conoscere l’esito di questo incontro bisognerà attendere lo speciale natalizio che promette scintille, con l’addio di Capaldi al T.A.R.D.I.S., un addio che pesa molto, giacché le ultime due stagioni hanno confermato il talento dell’attore nei panni del Dottore, che ha saputo non solo non far rimpiangere chi l’ha preceduto, ma ha anche regalato di nuovo al personaggio l’aura tradizionale del saggio spericolato (azzeccatissimo in questo il richiamo al Quarto con le gelatine nell’episodio finale). È stato più volte asserito che Moffat non è stato in grado di valorizzare concretamente il potenziale di Capaldi, oscurato anzitutto da una companion onnipotente e in secondo luogo da stagioni non memorabili come le tradizionali.

Rimane il dispiacere di aver perso anche con questa decima stagione, un’occasione per dare un degno saluto a un Dottore sfortunato, costretto in un arco narrativo altalenante, non sempre coerente o capace di gestire bene il mix di innovazione e tradizione che ha cercato fin dal primo episodio.

3.5

 

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Note

  • Oltre alle già citate gelatine, un duplice omaggio al quarto dottore può essere riscontrato sia nel riferimento che Missy fa, durante l’elenco delle morti dell’arcinemico all’inizio dell’episodio finale, a quella per caduta (avvenuta per mano di una sua precedente rigenerazione), sia nel flashback in punto di morte con i companion/nemici che invocano il Dottore. Entrambi i riferimenti sono in questo episodio: https://youtu.be/l3w-BHsXt4I
  • Sempre al Quarto Dottore fa riferimento la battuta “Sontarans! perverting the course of human history!”, già citata da Twelve in passato, riprendendo le prime parole di un appena rigenerato Tom Baker.
  • Le parole pronunciate in punto di morte da Twelve nell’ultimo episodio, “Without hope,  without witness, without reward”, sono le stesse che troviamo nel diario di River Song e pronunciate da Missy al momento della sua esecuzione (tutto nell’episodio Extremis).

 


Merry Christmas… o quasi!

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