Crisis In Six ScenesCrisis In Six Scenes – Quando Woody Allen sbarca in TV

Una giovane hippie e una coppia in crisi sono gli ingredienti dell'attesa serie TV firmata da Woody Allen. Tra battute geniali e siparietti esilaranti le aspettative vengono in parte deluse da una trama troppo scarna per non annoiare.

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Tutti hanno sempre qualcosa da dire su Woody Allen: chi non lo sopporta, chi lo venera, chi si addormenta ad ogni suo film, e chi al contrario ride tantissimo. La verità è che la qualità di scrittura e lo stile registico di Allen non dovrebbero mai essere messi in discussione, basterebbe accettare semplicemente che da una persona che ha sfornato ben 47 film, circa uno all’anno dal 1970, non ci si può aspettare un rendimento costante, a maggior ragione se questo rendimento parte da una base alquanto elevata. Solo una porzione di pubblico lo ha capito, e ormai la curiosità di vedere se l’ultimo film di Allen appartenga alla categoria di quelli riusciti o di quelli evitabili, sale più della voglia di guardarlo per il solo piacere di farlo. Si è scritto di tutto su Woody Allen, tanto che non ha più molto senso neanche parlarne, ma questa volta qualcosa di nuovo si può dire: Crisis in Six Scenes ci presenta per la prima volta un Allen disorientato, che messo alle strette da un contratto vantaggioso – quello con Jeff Bezos, il capo supremo del colosso Amazon – ha dovuto confrontarsi con un mondo che non gli appartiene, uscendone, dispiace dirlo, parzialmente sconfitto.

Crisis in six scenes

Gli articoli dei blog e dei giornali hanno sfruttato per mesi le dure dichiarazioni di Allen: cose come “Non ho idee e non so da dove cominciare. Penso che Roy Price – capo di Amazon Studios – se ne pentirà”, più che accrescere l’attesa abbiano abbassato non poco le aspettative. Nella confusione iniziale Allen ha pensato bene di mantenere per la scrittura e la regia della serie lo stesso approccio che avrebbe adottato per un film: il titolo ce lo suggerisce in maniera furbesca e compiaciuta, lo sviluppo narrativo poi ci smentisce clamorosamente. Ad 80 anni Allen ha tutte le scuse possibili, Cafè Society è il suo film del 2016, quello su cui ha concentrato tutte le sue energie, e lo ha portato a sottovalutare l’impegno televisivo con Amazon. Non guarda la Tv, non sa come si fa, non sa che un eventuale confronto con una robetta chiamata Mad Man – comune l’ambientazione anni ’60 – potrebbe distruggerlo. Da un lato il suo genio non ha bisogno, o timore, di confronti, dall’altro però noi spettatori siamo totalmente giustificati, se analizziamo il prodotto televisivo in sé, a smontare il lavoro di un autore che mai nella vita avremmo voluto criticare.

Crisis in six scenes

La crisi in questione è quella di una coppia di anziani coniugi, Sidney e Kay Munsinger (Woody Allen e Elaine May), e di alcune figure a loro vicine, all’arrivo improvviso in casa loro della giovane attivista politica Lennie Dale (Miley Cyrus) in fuga dalla polizia e in cerca di un posto dove nascondersi. Il soggetto è accattivante, il problema fondamentale della serie, diciamolo senza timori, è la noia. La scrittura di Allen spesso preferisce alle trame articolate le battute argute, l’ironia, i dialoghi con un ritmo ossessivo; qui però la trama, per la prima metà della serie, è ridotta all’osso, le trovate divertenti ci sono – le due sedute di terapia di coppia sono esilaranti -, ma il ritmo è talmente ripetitivo da risultare stancante. Nella prima scena lo stesso regista mette le mani avanti, giustificando la scelta della Tv in un gioco metatestuale che ormai è un classico; in fondo Crisis in Six Scenes non è altro che un film di due ore, in cui per la maggior parte del tempo il vecchio Munsinger si lamenta della nuova ospite, ed è un peccato, perché proprio il protagonista Sidney sarebbe uno dei personaggi più interessante dell’ultimo Allen, tra la sua disillusa velleità di somigliare a James Dean e il confronto impietoso con J. D. Salinger.

Crisis in six scenes

Non funziona il personaggio del giovane Alan Brockman (John Magaro), messo lì per sfruttare per l’ennesima volta il gioco del triangolo amoroso. Non funziona poi – ben più gravemente – la costante messa in scena dell’ideologia politica di Lennie, il cui contrasto con la dissacrante ironia di Sidney persiste fin troppo, e che appesantisce la narrazione ripetendo allo sfinimento gli stessi concetti, non giustificando il magnetismo che invece la ragazza pare esercitare su quasi chiunque la circondi. A funzionare sono la componente umoristica, e la leggerezza con cui nella seconda parte della serie viene affrontato uno sviluppo narrativo potenzialmente drammatico, in particolare nell’episodio 5, quello che si distacca dalla monotonia domestica e ci porta in città per un misterioso scambio di valigetta. Il finale poi, corale come pochi altri, strappa più di qualche risata, merito in buona parte della trasformazione delle simpatiche vecchine del club del libro da spensierate tradizionaliste ad appassionate rivoluzionarie. L’alchimia che si crea con Elaine May è perfetta, mentre su Miley Cyrus è difficile esprimere un giudizio, perché sembra costantemente un pesce fuor d’acqua, ma in fondo è proprio quello che doveva fare.

– Sports, just another opium for the people –
– Hey, your crowd thinks opium should be the opium of the people –

Allen non ha di certo perso la capacità di scrivere in modo intelligente e divertente una sceneggiatura, quella che è mancata è una visione generale, la stessa che si perde quando si guarda una cosa troppo da vicino, o troppo in fretta in questo caso. Da apprezzare la volontà di Allen di non piegare la sua scrittura alle logiche televisive, ma è anche inutile negare che è uscito sconfitto dal confronto col mezzo televisivo del 2016, un errore perdonabile nell’economia del suo lavoro, che resta quello di un autore tutt’altro che in crisi. Non sappiamo se Roy Price alla fine si sia pentito dell’accordo con Allen, noi intanto aspettiamo il film del prossimo anno, quando ci saremo già dimenticati di Crisis in Six Scenes.

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