AtlantaSeason 1: Black series matter

Atlanta è la storia di Earn e di suo cugino Paper Boi, ma è anche la storia di una comunità intera, raccontata attraverso gli occhi imprevedibili di Donald Glover. Una commedia che nasconde un'identità drammatica, il punto di incontro più strambo possibile tra la demenzialità delle sitcom e la più sentita critica sociale.

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Atlanta è la città di Martin Luther King, la città di Spike Lee, e di Kanye West, tre che hanno cambiato in modo definitivo, e su piani decisamente differenti, non solo la percezione dei neri nel mondo, ma anche la cultura afroamericana stessa. Atlanta è anche la città che Donald Glover ha scelto per ambientare la sua prima opera da sceneggiatore, la location perfetta per rappresentare le ambiguità e i malesseri della società dopo (e durante) il Black Lives Matter. Glover, da attore comico, forse non sarà destinato a fare la storia come i tre nomi precedenti, ma l’ambizione e le capacità di certo non mancano. Senza esagerare possiamo dire che Atlanta, la serie TV comedy targata FX, è una delle più belle sorprese del 2016 televisivo, se non la migliore.

Atlanta Donald Glover

Commedia surrealista o dramma spensierato, forse più una satira moderna dell’epoca social, ma anche un fresco ritratto di una comunità ancora troppo ghettizzata; definire Atlanta non è semplice, tante sono le sue dimensioni e le sue identità, in 10 episodi da 25 minuti, spesso differenti tra loro per atmosfera e temi trattati. Alla base c’è una situazione che mescola, com’è ormai chiaro, l’ordinario e lo straordinario: Earn (Glover) è un trentenne che ha fallito nelle sue ambizioni di carriera, e si ritrova senza un soldo, con una figlia, una relazione poco stabile e dei genitori che lo odiano. Si inventa agente per un suo cugino con ambizioni da rapper, Paper Boi, che ha trovato l’inaspettato successo su Youtube. I riferimenti possono essere tanti, da Broad City a Masters of None fino a Louie: sono tante le comedy che cercano di distaccarsi dalla struttura da sitcom proponendo uno stile grottesco, irreale ma quotidiano, che mettono in scena un disagio verosimile con ironia, utilizzando un linguaggio hipster, se vogliamo. Basta poi guardare la locandina, dove i protagonisti posano con una pesca, frutto simbolo della Georgia, in bocca, senza alcuna espressione, per capire che non si tratta di una serie del tutto convenzionale.

La mente dietro questo piccolo gioiello è quella, come già detto, di Donald Glover, che si prepara al boom definitivo di fama con la partecipazione ai nuovi film di Spider-Man e di Star Wars e che avreste dovuto conoscere nello spassoso ruolo di Troy in Community. Glover è capace di far ridere, è capace di cantare e far musica, come dimostra Childish Gambino, suo alter ego musicale. La polivalenza artistica e la carriera travagliata di Glover si riversano totalmente in Atlanta, mentre il dinamismo e la versatilità della scrittura della serie vengono assecondate in maniera solida dalla regia di Hiro Murai, regista di videoclip (tra cui appunto quelli di Childish Gambino), che rivedremo dietro la macchina da presa in Legion, ultima fatica di quel Noah Hawley che in Fargo ha dimostrato di essere sulla stessa pazza scia della semi-commedia dell’assurdo, che sta seguendo a suo modo Glover.

Atlanta Donald Glover

Una vera e propria trama non c’è, Donald Glover non vuole raccontare una storia, perché il suo intento è “…to show people how it feels to be black”, come lui stesso ha dichiarato; descrive dunque una serie di situazioni che sfociano a volte nell’assurdo, altre nel dramma più duro, altre ancora nella farsa più pura e ingenua; gli episodi sono spesso scollegati, come è apparentemente scollegata dall’attualità la vita quotidiana dei protagonisti. La forza di Atlanta sta proprio nella capacità di colpire lo spettatore attraverso situazioni leggere: ci si ritrova infatti a ragionare sulle radici del razzismo senza che il razzismo sia portato in scena, a pensare alla violenza, al maschilismo, ai pregiudizi, alla povertà, senza la seriosità di chi vuole fare critica sociale. Glover ha anche dichiarato che voleva che Atlanta fosse una sorta di Twin Peaks con i neri, ma forse il senso della dichiarazione è da cercare esclusivamente nella provocazione, come un po’ tutto il senso della serie stessa.

La genialità che si nasconde dietro alcuni episodi è sorprendente, in particolare B.A.N., il settimo episodio, offre una spregiudicatezza che raramente si vede in tv: l’intera puntata è costruita attorno ad un talk show di cui Paper Boi è ospite; scambi di opinioni pericolosi e surreali servizi giornalistici hanno il compito di spiazzare costantemente lo spettatore, disorientato e divertito allo stesso tempo, indignato e sorridente, di fronte ai parallelismi tra identità sessuale e razziale, transfobia e pregiudizi, libertà di espressione e malattia mentale. Vengono alla mente i finti trailer di Maccio Capatonda, il che è tutto dire se pensiamo alla drammaticità di alcuni episodi o alla violenza spiazzante delle sparatorie ingiustificate e improvvise.

Atlanta Donald Glover

I momenti potenzialmente cult sono tanti, a cominciare dal Justin Bieber nero, idea di una semplicità e di una potenza disarmante, fino ai numerosi dialoghi di Paper Boi con i suoi ammiratori e allo sguardo beffardo del ragazzino con la faccia enigmaticamente pitturata di bianco; in tutto questo circo di situazioni strambe e incomprensibile slang da ghetto, Atlanta lascia spazio a momenti di autentico sentimentalismo, mai troppo intensi, conclusi magistralmente con un episodio finale che non sembra tale fino all’ultima struggente scena. L’opzione della lettura profonda è dietro l’angolo ad ogni sequenza, così come lo è la risata incredula; se pensate che Atlanta sia una serie sulla scena hip hop, sui sobborghi poveri della città, o sul razzismo, vi sbagliate: Atlanta è tutto questo e molto di più, forse anche più di quanto la serie stessa si era proposta di essere.

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