American CrimeSeason 3: Drammi Silenziosi

American Crime riesce per la terza e ultima volta a distruggere il sogno americano dall'interno, raccontandone limiti e debolezze con un realismo spietato.

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Nonostante il titolo, la serie di John Ridley non è mai stata un vero “crime“. Questa terza stagione è tuttavia quella che più si è avvicinata a tale definizione, ma è anche quella che ha saputo esaltare il dramma privato dei suoi personaggi slegandolo, con il passare delle puntate, dalla semplice denuncia sociale. Se è chiara infatti nei primi episodi la volontà di affrontare il tema della schiavitù moderna nelle sue diverse forme, quella dei grandi campi agricoli come quella della prostituzione minorile, da metà stagione si intravede un cambio di rotta leggero ma significativo: la storyline principale viene risolta dopo sole 4 puntate, e le vicende assumono il carattere intimo che sempre è stato caratteristica della serie.

Se nella prima e nella seconda stagione il pregiudizio razziale e la disuguaglianza sociale erano le colonne portanti dalla quale la storia non riusciva a staccarsi, qui i confini del male e del bene diventano se possibile ancora più labili, e il conflitto etico e morale si gioca sul campo del libero arbitrio, dimostrandoci che si può essere vittime di se stessi o diventarlo senza neanche rendersene conto.

Il primo omicidio, quello del giovane Teo, che funge da premessa alle vicende, è la diretta conseguenza di un sistema marcio, della totale mancanza di diritti, mentre l’ultimo, quello di Shae, avviene per un motivo futile, che poco o niente ha a che fare con la situazione in cui si trova. Il terzo “crimine” è quello subito in silenzio dall’haitiana Gabrielle , talmente in silenzio che neanche lo spettatore se ne accorge; una scelta azzardata quella di lasciare delle parti non dette, ma una scelta potente che carica la vicenda di un significato ben diverso da quello che sarebbe potuto essere semplicemente raccontandolo.

Nel mezzo ci sono le vicende di due donne che di crimini non ne commettono, ne sono vittime, ma che sentono il tema della giustizia come componente intima delle proprie azioni: in modo diverso Kimara e Jeanette compiono delle scelte che le fanno scontrare con una realtà dura e soprattutto con la propria coscienza, pronta a sbagliare e a tornare sui propri passi.

La confessione delle colpe da parte di Diego, in apertura del quinto episodio, chiude la storyline di Luis Salazar (Benito Martinez) e della sua intensa vendetta personale; non riesce però a farlo per la fragile Jeanette Hesby, una Felicity Huffman ancora una volta al limite dell’incredibile, la cui ricerca di indipendenza finirà per scontrarsi con l’impossibilità di trovare un lavoro, e la cui fiducia nel prossimo verrà definitivamente seppellita dalla ricaduta della sorella Raelyn nella droga. Jeanette scappa dalle mura domestiche in cui si era rifugiata per tutta la vita, e ci torna con la coda tra le gambe e con una rinnovata amarezza, che rende la speranza per il futuro della famiglia decisamente poco convincente.

Le vite della giovane Shae Reese (Ana Mulvoy Ten) e di Kimara Walters (Regina King) sembrano opposte, eppure si incrociano per un breve tratto, una con una gravidanza indesiderata, l’altra che cerca in tutti i modi di iniziarne una. La fuga di Shae dalla casa d’accoglienza di Kimara rappresenta un punto di svolta invisibile: le due storie si scollegano inaspettatamente quando Shae decide di fare di testa propria, vanificando gli sforzi professionali e umani di Kimara. La vittima che non vuole essere salvata, e che in realtà è vittima di se stessa (a tal proposito non poteva esserci morte più stupida e più “giusta” per la biondina), un duro colpo per chiunque cerchi di cambiare le cose per una società più giusta, la speranza che ancora una volta muore.

Lili Taylor e Timothy Hutton entrano in scena nel quarto episodio interpretando i coniugi Coates, tutt’altro che felici. La padrona della scena è tuttavia la tata francofona Gabrielle (Mickaëlle X. Bizet), il cui sguardo impaurito è il vero simbolo di questa stagione. La paura la proviamo anche noi con lei quando consegna il passaporto a Claire Coates, una scena narrativamente semplice ma spaventosa come poche: una resa involontaria, una condanna ad un futuro incerto, il confine tra datore di lavoro e padrone che non è mai stato così inquietante.

Il colpo di scena finale rende la vicenda ancora più intensa, il silenzio linguistico di Gabrielle è il silenzio della sceneggiatura stessa, che ci nasconde i fatti, a sottolineare quanto dietro una vita quotidiana apparentemente a posto possa nascondersi ben altro, e quanto a volte sia difficile individuare la vera violenza tra le persone fidate. Una discesa verso l’inferno lenta e inesorabile, di cui ci si accorge solo una volta raggiunto il fondo.

Primo piano dopo primo piano American Crime ha saputo costruire un pathos riconoscibile. Una serie finalmente drammatica che punta su un’autorialità coraggiosa ma efficace. La regia lenta e attenta, insistente sui volti dei personaggi anche nei momenti in cui le consolidate logiche hollywoodiane non lo prevedono, esalta la grandezza degli attori, che per tre anni ci hanno fatto piangere e soffrire come pochi altri; Felicity Huffman, Lili Taylor, e Regina King, in particolare, sono tre forze della natura. American Crime mancherà a pochi, essendosi il suo pubblico ristretto notevolmente negli anni, e convincere un pubblico esigente e ossessionato dalla velocità come quello di oggi, dandogli pugni allo stomaco a velocità rallentata, non deve essere proprio impresa semplice.

4.5

 

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