American Crime3×01 Season Three: Episode One

Immigrazione clandestina, mercato nero del lavoro, e prostituzione minorile sono alcuni dei leggerissimi temi che la nuova stagione di American Crime ha deciso di affrontare. Stesse regole, stessi attori, ed un nuovo dramma americano in cui perdersi.

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Se le prime parole pronunciate in uno show intitolato “American Crime“, nel 2017, sono in lingua spagnola, allora forse quello show ha colto nel segno dell’America che vuole raccontare. I dubbi al riguardo erano pochi: se c’è una serie TV che ha saputo mantenere le promesse anticipate dal suo titolo, quella è proprio la serie creata da John Ridley, che nelle prime due stagioni ha saputo come pochi altri esplorare l’intimità degli Statunitensi, descrivendone in modo personale e insieme universale le contraddizioni e le paure. Dopo l’Oscar vinto nel 2013 per la sceneggiatura di 12 anni schiavo, Ridley si è concentrato unicamente su American Crime, e i risultati non si sono fatti attendere, poi la maldestra parentesi di Ben-Hur in cui si è visto sopraffatto dalla superficialità della produzione e dalla scelleratezza di Bekmambetov. Con questa terza stagione di American Crime, Ridley ritorna a fare quello che gli viene meglio: raccontare il dramma americano; e ora, con Trump alla presidenza, quello stesso dramma può solo essere più vero e spaventoso.

La serie è antologica, e come ormai sappiamo bene vuol dire che sua maestà Felicity Huffman è ancora la punta di diamante del cast, a cui si aggiunge la Sandra Oh di Grey’s Anatomy, e che vede Lili Taylor, sorprendente nella seconda stagione, tornare ad un ruolo ricorrente e non più “regular”. Benito Martinez ha proprio il faccione da padre preoccupato, quello faceva nella prima stagione e quello fa anche in questa, lo vediamo nei panni di Luis Salazar tentare la strada dell’immigrazione clandestina per raggiungere dal Messico il North Carolina. Lui e il giovane Coy Henson, un Connor Jessup scappato di casa e dalla recitazione ancora acerba, rischiano di rimanere vittime di quella che è in effetti una moderna forma di schiavitù: se in 12 anni schiavo si raccoglieva il cotone qui si raccolgono i pomodori, la paga misera che è già un debito è la condanna a non poter permettersi di andar via.

Dalla semilegalità delle grandi comunità agricole, dalla pelle rovinata degli immigrati, la camera passa ad inquadrare il volto pulito di una ragazzina, Shae, che di schiavitù dovrebbe leggere sui libri di storia. La prostituzione minorile mancava nell’elenco dei disastri della società occidentale affrontato in American Crime; torna quindi Regina King interpreta un’assistente sociale che si vede scappare dalle mani i ragazzi da proteggere, così come i soldi dal suo portafogli. Il cambiamento del punto di vista e la sua interpretazione contraddittoria sono la grande forza di questa serie, che infatti posa il suo sguardo anche sui signori in giacca e cravatta che controllano le “farmland”; in realtà Jeanette Hesby alle cene se ne sta in disparte e pensa a recuperare il rapporto con la sorella, ma ha lo sguardo ingenuo di una che qualche casino lo combinerà.

Un pilot che mette in scena come al solito pezzetti di storia, li incastra lasciando intravedere il disegno finale, come quando si inizia un puzzle dai bordi, rendendo la scena al centro del riquadro visibile solo alla fine degli 8 episodi. L’incipit con la chiamata al 911 si ripete mantenendo la tradizione, l’omicidio nelle mura domestiche della prima stagione e lo stupro della seconda vengono sostituiti da un corpo “muerto” che galleggia in un fiume, l’ambientazione abbraccia per la prima volta in partenza una dimensione più aperta e selvaggia. Se la struttura rimane la stessa il montaggio risulta forse più convenzionale del solito, i tagli improvvisi e disturbanti della prima stagione lasciano spazio a delle potentissime inquadrature inaspettatamente lunghe, come la porta chiusa dal primo cliente di Shae, e ai soliti morbosi, opprimenti, primi e primissimi piani, come quello della stessa ragazza sul finale di episodio, quando la seconda porta viene sfondata dando il vero “via” al suo personale dramma.

Il sesso ha sempre un ruolo chiave in American Crime, e se nella prima stagione gli eccessi nascosti delle vittime erano un elemento di sorpresa narrativa, nella seconda i pregiudizi sull’orientamento e l’identità sessuale erano la colonna portante della vicenda dei personaggi principali. In questa terza stagione sembra che la tematica sia stata ulteriormente estremizzata, sottraendo alla dimensione sessuale qualsiasi mistero o passione per caricarla di un non-valore vuoto come gli sguardi dei ragazzi coinvolti. Un manifesto politico, American Crime, lo è sempre stato; le lotte per l’uguaglianza dei diritti, per l’abbattimento dei pregiudizi, da sempre sono state il vero motore delle vicende narrate; la presidenza di Trump non può far altro che caricare di significato, se possibile ancora maggiore, queste stesse lotte che la serie intraprende senza mai perdere di vista la natura artistica e allo stesso tempo commerciale delle moderne serie TV: la distruzione del sogno americano attraverso il mezzo più “americano” a disposizione. Uno dei pochi esempi di televisione che da ancora valore alla misura come elemento narrativo e ritmico, un’esperienza visivamente analitica e allo stesso tempo intensa, che esplora in profondità le troppo contraddittorie facce della società occidentale.

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