13 Reasons WhySeason 1 Recap: Nell’Occhio del Ciclone

Senza troppa cautela e con un coraggio invidiabile, 13 Reasons Why affronta i lati più cupi e drammatici della nostra società, con un'attenzione particolare ed esclusiva alla psicologia e alle azioni delle nuove generazioni. Bullismo, violenze e suicidio sono solo alcuni tra i tanti temi di attualità che trovano la loro rappresentazione nel nuovo, devastante prodotto Netflix.

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In un mondo in cui l’indifferenza e l’omertà fanno da padrone, sospeso tra l’apparenza dei social e la vita vera al di là di essi, in cui i punti di riferimento sono stati rovesciati e le nuove generazioni si trovano allo sbaraglio, una serie come 13 Reasons Why non può che imporsi come voce di denuncia, come grido straziante in grado di frantumare le fragili e opache vetrate, che tentavano di nascondere le contraddizioni e gli aspetti più cupi della nostra società. Dietro i colori pastello delle pareti dell’istituto, dietro i cori dei tifosi durante le partite di basket del liceo, dietro l’eleganza dei balli scolastici, si consumano tra amicizie fragili, voci false, risse in cortile e feste con troppo divertimento e poca responsabilità, le vite dei ragazzi della Liberty High, non tanto diverse da quelle dei loro coetanei dall’altra parte dello schermo.

Eppure, 13 Reasons Why non si mette su un piedistallo, non vuole fare la paternale ed esaltare i bei valori perduti delle vecchie generazioni: vuole rappresentare, con estremo verismo, questa nuova e spesso troppo mistificata realtà, parlando ai giovani non con parole di rimprovero, come accade spesso con gli adulti, ma di certo con toni maturi, trattandoli come gli uomini e le donne che si accingono a diventare. Le severe accuse di Hannah Baker, i suoi nastri pieni di disperazione, rancore e critiche rivolte sia agli altri che a se stessa, sono perciò solo la punta dell’iceberg. Sotto la superficie, si trova un sistema sociale complesso e articolato tutto da analizzare, un mondo cui veniamo introdotti attraverso due grandi interrogativi: chi ha ucciso Hannah Baker? A che conseguenze porterà la sua morte?

Rispondere alla prima domanda non è semplice, e d’altra parte non può esserlo. Non c’è mai solo una ragione, non c’è mai un colpevole esclusivo che possa fare da capro espiatorio: come dice la protagonista stessa, si tratta di “one thing on top of another“, eventi spiacevoli o addirittura traumatici che si sono accumulati nel corso degli anni. Se gli ultimi episodi si distinguono per affrontare con violenza le motivazioni più pesanti, parlando di stupro, victim blaming e bro code, il vaso inizia a riempirsi già con lo slut-shamingl’indifferenza e il bullismo che caratterizzano la prima metà della stagione, prima di traboccare definitivamente. Ciò che impariamo grazie ai flashback e le chiose di Hannah è simile a quello che in fisica prende il nome di butterfly effect, non a caso citato più volte nel corso degli episodi: niente è mai “solo” una parola, una foto, un pettegolezzo, e ogni gesto, anche quello apparentemente più banale, può lasciare una ferita irreparabile nel cuore di qualcuno. Una lezione di vita che potrebbe sembrare scontata, impartita con la crudezza e il realismo di cui avevamo bisogno.

Tale violenza narrativa emerge in delle scene dall’impatto fortissimo, sia a livello concettuale che visivo, che rendono tragicamente vicini e reali atti di stupro, di molestie verbali e fisiche, di alcolismo e dipendenza da droghe, di suicidio. Il momento in cui Hannah si toglie la vita viene, infatti, audacemente rappresentato senza mezzi termini, senza edulcorare nulla. Lo stesso accade con le due disturbanti scene di violenza sessuale. Le tematiche affrontate, tutte riconducibili alla denuncia di una società maschilista e piena di stereotipi, in cui non c’è spazio per chi è diverso, sono dunque, come si è visto, estremamente attuali e potenti, e la riflessione a riguardo, cui lo spettatore è portato, costituisce il maggior punto di forza della serie.

Ai colori caldi e avvolgenti dei flashback si contrappongono, in un gioco d’incastri e contrasti gestito al meglio, le fredde e cupe tonalità del presente, attraverso le quali vediamo le reazioni dei compagni di scuola della defunta non tanto alla sua morte, quanto a ciò che è contenuto nelle sue audiocassette. Seppur venga ripetuto a oltranza che quei nastri contengono solo la verità di Hannah, quasi nessuno ha il coraggio di parlarne, di far venire a galla i tremendi segreti che hanno scoperto ascoltando quelle registrazioni. Questo velo di omertà, per cui tutti i ragazzi sono colpevoli, è molto intrigante e i continui subtexts che riceviamo mentre veniamo a conoscenza dei fatti insieme al protagonista contribuiscono ad aumentare l’ansia e la voglia di saperne di più, esasperando quell’unione tra le due anime, teen drama e thriller psicologico, che avevamo già notato nel pilot.

Questa trama orizzontale secondaria, che si prefissa di dare una risposta alla nostra seconda domanda portando agli interrogatori dell’ultimo episodio, è articolata su diversi piani, ma l’obiettivo è di certo puntato con maggiore attenzione su Clay e le sue emozioni, spesso contrastanti, nel corso del viaggio logorante che sta compiendo all’interno della mente di Hannah. Un viaggio che lo porta a scoprire la sua effettiva colpa nel suicidio della ragazza, in una puntata potente, strana, ma perfetta: il suo nastro, infatti, si risolve nel migliore dei modi dal punto di vista narrativo, senza caricare con atteggiamenti da bullo il personaggio ed evitando quindi di cadere nel burrone dell’out of character e della forzatura, anche se abbiamo potuto essere testimoni di come anche lui non sia poi così lontano da atti di bullismo e vendetta.

CLAY: I love you.

HANNAH: Why didn’t you say this to me when I was alive?

Se da un lato abbiamo le indagini parallele di Clay, l’unico che ha davvero il coraggio di rompere il silenzio e rivelare a tutti i terribili segreti svelati da Hannah, dall’altro c’è Tony, stranamente scampato alle audiocassette, ma fin troppo implicato nella vicenda: l’iniziale diffidenza che si prova nei suoi confronti cede il passo a una forte ammirazione nel momento in cui finalmente si apre con il suo migliore amico e racconta il suo ruolo. Con la sua saggezza da unhelpful Yoda, sarà proprio lui a dar voce ad uno dei messaggi più forti, chiarendo il vero intento di una serie che rischia di essere travisata come un invito a farla finita: tutti hanno ucciso Hannah, è vero, ma solo perché tutti hanno fallito nel farle capire di avere, al di là delle tredici ragioni per uccidersi, almeno il doppio dei motivi per continuare a vivere.

La caratterizzazione dei giovanissimi, accomunati da un rapporto ambiguo e traballante con la ragazza e dalla loro presenza all’interno delle famigerate audiocassette, è curata, insomma, in maniera meticolosa, e riesce ad infrangere stereotipi e cliché. Ce ne sono davvero per tutti i gusti: il popolare cestista della squadra del liceo, la timida ragazza lesbica che non ha coraggio di fare coming out, il bravo ragazzo che ha commesso uno stupido errore e vorrebbe dire la verità , il presuntuoso capobranco di turno, che nasconde il segreto più tragico. Ma non ci si ferma qui, nulla è come sembra e c’è sempre qualcosa oltre questi bozzetti, cosicché i personaggi appaiono come estremamente umani e realistici, grazie alla loro tridimensionalità; il fatto che ognuno porti avanti un punto di vista diverso, una storia del tutto inedita da raccontare, permette loro di essere subito riconoscibili e vicini allo spettatore, che, soprattutto se giovane, può immedesimarsi pienamente in loro. Il merito – ora possiamo dirlo – va sicuramente anche ai bravissimi attori, molti dei quali muovono con 13 Reasons Why i primi passi nel mondo dello spettacolo, senza lasciar trasparire per un istante la loro inesperienza.

Ma qual è il ruolo degli adulti in tutto questo? Di certo il ritratto che se ne fa non è positivo, dal momento che ci troviamo davanti a delle autorità scolastiche totalmente assenti e omertose, non meno responsabili – pensiamo al signor Porter – dei ragazzi, o a dei genitori, come quelli di Clay,  inadatti ed incapaci nell’esercitare il proprio ruolo. Le continue domande dei signori Jensen e il loro perenne chiudere gli occhi sulle azioni oggettivamente molto sospette del figlio sono sintomatici di una distanza, spesso incolmabile, tra le due generazioni, ma costituiscono allo stesso tempo l’unico vero punto debole della serie, che ci costringe ad una forzata sospensione dell’incredulità davanti all’eccessiva passività delle figure genitoriali. I fallimentari tentativi degli adulti nel capire i loro figli trovano però la loro perfetta rappresentazione nei coniugi Baker, che, dopo aver ignorato lo stato d’animo di Hannah, desiderano adesso sapere la verità, come se cercassero nella battaglia al bullismo e ai vertici della Liberty High l’assoluzione dal non aver saputo scongiurare la morte della figlia: una storyline magistrale, questa, che trova la sua sublimazione nelle interpretazioni ricche di pathos di Kate Walsh.

Alla fine, l’assoluzione arriva a modo suo, nel momento in cui le audiocassette non sono più un segreto e sia il tribunale, sia i coniugi Baker, sia la scuola sono a conoscenza della loro esistenza. È giunta l’ora in cui tutti si devono assumere le proprie responsabilità, affrontando le conseguenze di ciò che è accaduto; eppure, il finale dell’ultimo episodio, così aperto, ci impedisce di dare una risposta certa al secondo interrogativo che ci siamo posti, lasciando piuttosto spazio alle congetture più svariate riguardo agli ultimi minuti della serie. Nulla da biasimare: in questo modo possiamo interpretare in maniera personale il finale, possiamo ipotizzare che Bryce venga punito, che il signor Porter abbia dato le audiocassette alle autorità, che Alex Standall riesca a sopravvivere. Ma allo stesso tempo si fa reale il pericolo di una seconda stagione, magari incentrata sul processo, che rischierebbe di compromettere troppo quel quadro quasi perfetto che 13 Reasons Why è riuscito a dipingere con tanto realismo e tanta attenzione, suscitando intorno a sé un acceso dibattito generazionale e invitando tutti, dai più giovani ai più adulti, a riconoscere e rispettare l’umana fragilità di chi ci sta accanto.

4.5

 

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